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Di nuovo il critico cinematografico massimo mirra con noi, con una straordinaria istantanea del film che la rivista best movie ha classificato tra i primi 10 del 2023 

THE HOLDOVERS  –  LEZIONI DI VITA: UN CAPOLAVORO OLTRE SE’ STESSO

Nell’ultimo film di Alexander Payne “The Holdovers - Lezioni di vita”(2023), senza ombra di dubbio il suo capolavoro assoluto, il regista statunitense sembra tratteggiare e stigmatizzare il candido esempio dell’infaticabile narratore delle fralezze dell’America di ieri, ma anche di oggi, e questo perché la storia - raccontata a mo’ di Bildungsroman - ancorché ambientata nei primi e favolosi anni Settanta, viene elevata al rango della contemporaneità nel suo perfetto equilibrio di tipo narrativo. Negli articolati esempi filmici del passato, non privi di preclare virtù, come “A proposito di Schmidt”(2002), “Sideways - In viaggio con Jack”(2004) e “Nebraska”(2013), Payne ha già saputo raccontare - sempre all’interno del panorama autoriale del politicamente scorretto - con encomiabile acribia, gusto sardonico, raffinato linguaggio e colto esempio letterario - peraltro in linea con la grande scuola della “Nuova Hollywood” degli anni Settanta - quella fragile ed uggiosa malinconia di natura esistenziale e psicologica capace di avviluppare, nella sua complessità, l’America a partire da quella degli anni Settanta, ma anche quella con i tratti tipici della contemporaneità. Con “The Holdovers”, ispirato al bellissimo film di Marcel Pagnol: “Vacanze in collegio” del 1935, il regista sembra aver raggiunto l’apogeo, attraverso le annunciate tesi - divenute all’uopo concrete proprio in questo suo ultimo e splendido capolavoro - preesistenti, però, già nei suoi iniziali film, utilizzando rigorosamente il digitale, ma senza mai dimenticare l’incommensurabile lezione del cinema classico, anche dal punto di vista delle diverse ambientazioni squisitamente narrative, degli anni Settanta e osannando, o ancor più venerando, sia i suoi tre numinosi maestri, come Wilder, Lubitsch e Bogdanovich sia la grande figura artistica di Dino Risi e la commedia umana italiana. La storia del film si svolge a New England nel 1971, all’interno del campus della Barton Academy - un liceo privato, a mo’ di College, dal blasonato rigore accademico. Siamo a qualche giorno prima delle desiderate vacanze Natalizie, laddove chiunque tenta, come è giusto che sia, di raggiungere la propria famiglia per festeggiare, amorevolmente, la nascita del Signore, ma non a tutti, per recondite e diverse motivazioni, viene consentita, o meglio concessa, la partenza nell’imminenza, appunto, del Natale, come nel caso dell’inquieto ed angustiato Angus Tully (Dominic Sessa), espulso più volte da altre scuole, rispetto al quale dovranno, per forza maggiore, sacrificarsi due importanti protagonisti del film: il professore di storia antica Paul Hunham - interpretato magistralmente da Paul Giamatti (in odore di Oscar), già attore feticcio e spirito guida di Alexander Payne - odiato, vilipeso ed evitato tanto dai suoi allievi quanto dai suoi colleghi, in conseguenza sia dei suoi biliosi e severi modi dal sapore profondamente misantropico, sia di un nauseabondo odore proveniente dalle sue ghiandole sudoripare in presenza di una lapalissiana sindrome di natura metabolica; l’altra grande protagonista del film è la capo cuoca della Barton Academy Mary Lamb (Da’ Vine Joy Randolph), dai modi dimessi e severamente depressa per la recente e prematura dipartita del figlio durante la guerra in Vietnam.

Il film sembra ricordare e ripercorrere, solo in parte, “L’attimo fuggente” (1989) di Peter Weir, ma in effetti lo surclassa, oserei dire di gran lunga, tanto dal punto di vista tecnico e formale - una commedia (quella di Payne) certamente di genere classico, ma tra l’intimistico e il formativo e con una sorta di invigorimento del dettaglio imperniato, però sul senso di una autentica e profonda nostalgia del tempo trascorso e in particolar modo del secolo scorso; una fotografia (quella di Eigil Bryld), intrisa di incantevoli e raffinati elementi scenografici, racchiusa, visibilmente, all’interno delle mura della Barton Academy, ma metaforicamente protesa o volta a stigmatizzare il rilevante contenuto - a mo’ di messaggio - improntato al valore della presunta integrità umana presente in ognuno di noi, una sceneggiatura (quella di David Hemingson) praticamente perfetta - quanto sul piano tematico di fondo: una sorta di profonda e feroce critica sociale, con toni sempre sarcastici e metaforici, al sistema scolastico degli anni Settanta e non solo. La grande maestria di Payne, diventa davvero unica e mirabile, nel saper dirigere, grandemente, i tre formidabili protagonisti del film all’unisono con l’enorme capacità, dello stesso, di saper, di converso, anche togliere o semplicemente sottrarre quella sorta di enfasi che ciascun personaggio può, naturalmente, portarti ad interpretare. Inoltre l’approfondito scavo - da parte del regista statunitense - nella persona dell’interprete ossia dell’attore in quanto persona (altro elemento caratteristico e distintivo in questo film e nel cinema in generale di Payne) - mettendone cosicché in rapporto e a confronto la verità del personaggio con la verità umana della persona - rende soprattutto Paul Giamatti davvero straordinario. Il film, a mio modo di vedere, sembra andare addirittura oltre il già conclamato capolavoro quando Payne - assurto ormai nel novero dei grandi autori neorealisti del cinema americano o ancor più dell’ultimo neorealista statunitense del grande schermo - nell’affrontare temi apparentemente datati, come il becero razzismo, la guerra del Vietnam e il perenne isolamento sociale dell’uomo dalle sembianze deboli, rimescola - giammai artatamente - con grande vena artistica, nonché stilistica, il racconto metaforicamente espresso con l’artificio narrativo del contesto realistico in cui il tutto sembra avere inizio, all’insegna della più autentica emozione dispiegata ed improntata al senso del valore natalizio e quindi della pacificazione e dell’amore. In questo capolavoro nulla viene lasciato al caso, nemmeno la voluta ed ostinata visita che Tully, di soppiatto alla famiglia, sente di voler fare al padre malato e ricoverato in una clinica di Boston. Rispetto a tutto ciò il professore di storia antica ne suffraga l’autentico ed apprezzabile gesto, pagandone, però, il salato prezzo del non previo licenziamento. Insomma il film, nella sua unica e possibile conclusione, sembra lasciare fluire, inopinatamente, un ulteriore e significativo messaggio, dal sapore rosselliniano, proferito alle nuove generazioni di ieri e di oggi e cioè quello di seguire sempre e comunque, con il piglio della verità, l’unica felicità concessa a noi umani: vivere una vita intrisa di amore, semplice e nella più autentica creazione, senza mai perdere il senso dei veri valori di riferimento e la fiducia nell’uomo. “Omnia vincit amor: et nos cedamus amori”, ci ricorderebbe o direbbe il grande Publio Virgilio Marone, e Alexander Payne, all’insegna di questo memorabile ed incantevole brocardo, chiederà, anzi implorerà, ai suoi tre protagonisti di cedere o arrendersi, unicamente, all’amore.                                                                                                                  Massimo Mirra

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EAN - LUC GODARD, L'IMMORTALE: SIMBOLO E PILASTRO DELLA NOUVELLE VAGUE


Un omaggio al genio del cinema, tanto grande quanto, forse, negletto, soprattutto negli ultimi tempi.

di Massimo Mirra                                

È morto, alla veneranda età di novantuno anni Jean - Luc Godard, a mio modo di vedere, tra i cinque più grandi cineasti di ogni tempo e ovviamente l'ultimo dei grandissimi, di concerto con Martin Scorsese e forse Clint Eastwood. l'unico capace di riformare, ammodernare, rinnovare e svecchiare tanto la forma quanto i variegati contenuti della settima arte o decima musa. Radicale nelle scelte contenutistiche, destabilizzante nelle ragioni politiche e sociali (con il suo cinema profondamente politico, ma senza aver mai prodotto, creato o fatto film che potessero parlare anche solo larvatamente di politica, forse con qualche consapevole eccezione da parte dell'autore stesso), innovatore nel linguaggio cinematografico con la rottura sistematica di quasi tutte le regole basilari ed imprescindibili del linguaggio cosiddetto classico, ossia quel linguaggio interamente imperniato sul principio di illusione di realtà: l'eliminazione dell'atavico ed obsoleto tabù del cosiddetto sguardo in macchina, capace di stabilire una sorta di comunicazione diretta ed immediata tra film e spettatore; l'uso quasi sistematico del jump cut, della macchina a mano, dei falsi raccordi e del montaggio serrato, intricato, caotico e disarticolato; l'utilizzo, a mo' di sostegno e di pratica, di quel processo di scrittura inerente alla cosiddetta sceneggiatura - canovaccio o appena abbozzata, rispetto alla tipica e conclamata sceneggiatura di ferro del cinema classico; la pratica di un non eccessivo rispetto della regola forse meno violata del cinema e nel cinema, cioè lo scavalcamento di campo, ossia la regola dei 180°  (campo/controcampo); l'utilizzo della ripresa in continuità spazio - temporale (long take o piano sequenza), capace di rendere ed esplicitare quella sorta di ambiguità del reale di baziniana memoria. Godard amava tanto Roberto Rossellini quanto Jean Renoir, considerandoli, entrambi, sui mentori e forse solo il sommo e rapido Rossellini e l'umanista e profondo Renoir furono allora e sono a tutt'oggi più grandi di lui. Ovviamente mi riferisco al cinema della modernità e non vorrei, a tal uopo, dimenticare cineasti immensi - nella ormai classica scansione periodica, di Noël Burch, inerente al cinema primitivo, classico e moderno - come: Murnau, Ejzenstejn, Griffith, Antonioni, Ozu, Kurosawa, Kubrick, Fellini, Visconti, Ford, Welles, Hitchcock Hawks, Mann, Ray, Bergman, Bunuel, Fassbinder, Scorsese, Sirk, Kazan e Rosi, sparando nel mucchio di un caleidoscopio, multiforme e mutevole, ripercorso nell'alveo temporale di un'arte, però, senza tempo. Pensavo che Godard fosse immortale persino nel fisico e non solo nell'anima, ma così non è stato, anche se è diventata immortale e senza tempo la sua incommensurabile e poliedrica arte, con i suoi immani capolavori come: "Fino all'ultimo respiro", "Questa è la mia vita", "Il disprezzo", "La cinese", "Il bandito delle 11" e tanti altri capolavori. Godard voleva cambiare il mondo con il cinema, ma il cinema ha cambiato soprattutto lui, trasformandolo nel più grande artista del Novecento e uno dei più grandi d'ogni tempo. A dimostrazione di ciò, se ve ne fosse ancora bisogno, possiamo asserire con assoluta fermezza e convinzione che chiunque ami il cinema deve avere amato indissolubilmente Godard. A tal uopo il grande ed impertinente regista Michel Hazanavicius seppe, giustamente e grandemente, omaggiarlo - più come artista che come uomo - qualche anno addietro, con uno splendido biopic a mo' di film pamphlet "Il mio Godard", imperniato sulla figura della sua poliedrica, rivoluzionaria, sperimentale e geniale personalità artistica rappresa sia nella sua filmografia omnia, sia nella sua opera di scrittura a tutto tondo - che per lui già significava fare cinema, nel solo viverlo - dal sapore molto colto, ma anche molto contestata da buona parte di quel mondo cinematografico che spesso lo ossequiava fintamente perché era molto difficile poterlo contestare autenticamente e perspicuamente.

MORTO GODARD NON MUORE IL CINEMA, MA LA CRITICA CINEMATOGRAFICA

Misurata ma decisa riflessione del nostro critico cinematografico su una sorta di andazzo che caratterizza certuni ambiti del mondo del cinema, da sempre contraddittoria tribuna della cultura e della gens dei vari tempi.

In questi due ultimi giorni, preceduti dalla triste notizie della dipartita di Jean - Luc Godard, pochissimi esperti del settore e critici cinematografici si sono espressi sulla morte del grande Maestro e persino sulla sua lapalissiana grandezza a tutto tondo. Oggi ho avuto la dimostrazione de facto e dal sapore anapodittico che a morire non sia proprio il cinema in sé, come ebbe a dire in illo tempore, sbagliando, lo stesso Godard, ma piuttosto la critica cinematografica, quella ovviamente dal temperamento fasullo e più retriva ed ostica al cambiamento. Solo l'eccellente e puntuale trasmissione radiofonica Hollywood Party ne ha parlato, con spedita immediatezza, di concerto con il critico Paolo Mereghetti. Non a caso Mereghetti, assurto spesso nel Gotha o nel Pantheon dei grandi critici cinematografici, resta uno studioso di grande livello e di prima grandezza nel panorama cinematografico italiano ed internazionale. Se non si parla, anche solo scrivendone, o si scrive, anche solo parlandone, su Godard, a prescindere dal fatto che lo si possa amare o meno, è come se, noi grandi appassionati della settima arte, negassimo la stessa esistenza del cinema e a soccombere od avere la peggio, in un futuro immediato prossimo, sarà, ovviamente, l'ormai presunta critica cinematografica. Aprà, Aristarco, Chiarini, Kezich, Bianchi, Fink, Verdone, Bazin, Daney, Tailleur e tanti altri non avrebbero giammai esitato a parlare di o scrivere su Godard, né rinunciato a raggiungere un momento di particolare notorietà o di gloria, nel loro solo elogiarlo. Vi è un momento per tacere, un momento per parlare e un momento per scrivere. Chi tace su Godard rinuncerà a parlarne oggi, scrivendone inutilmente domani. Non me ne vogliate critici del nulla - riferendomi a quei critici retrivi e forse negletti, pronti ad esibire un profluvio di parole arzigogolate sul sesso degli angeli, ma non sul senso e sulla vera essenza di ciò che l'arte cinematografica rivela, creando, attraverso l'articolata fantasia dei suoi incommensurabili autori, come appunto Godard - ma abbiate almeno il coraggio e il pudore di tacere per sempre, parlando e scrivendo semmai di ippica, ma non di cinema. Se per puro caso Godard avesse anche solo compreso, anzitempo, il senso dell'inutilità di questo tignoso mondo di parole che ci sovrasta sempiterno, nulla ci vieta di pensare, in questo preciso momento, che lo stesso geniale cineasta, nonché autore a tutto tondo, abbia preferito, legittimamente, la morte alla vita, avendone, a questo punto, pienamente ragione. Vorrei tanto, a tal proposito e a dimostrazione di quanto sostenuto, farvi leggere, ma non lo farò, alcuni - ovviamente con le dovute e ragguardevoli differenze - esili necrologi scritti, in occasione della sua triste dipartita, anche da alcuni autorevoli critici o esperti del settore, su alcune testate giornalistiche di carattere nazionale. Tanta e tale è la loro considerazione su Godard, che nel solo leggere i loro sparuti, talvolta infamanti ed infingardi articoli se ne perde, a breve, addirittura la traccia del benché minimo pensiero in riferimento a quel senso ambiguo e contorto che si vorrebbe attribuire al geniale Godard, confondendolo, però, con Ninì Grassia, con tutto il rispetto che pur si deve ad un modesto artigiano del cinema.

MARCO BELLOCCHIO E MARIO MARTONE: DUE GENI AGLI ANTIPODI, CON IL VEZZO DEL CAPOLAVORO

"Molto bella! Molto giusta l’evocazione di Camus e il parallelo col Primo uomo di Amelio, nonché molto bello per me l’accostamento al grande Bellocchio". Ecco come ha commentato Mario Martone, regista cinematografico, teatrale e sceneggiatore napoletano, quando ha avuto modo di leggere la bozza di questo minuzioso articolo che, ancora una volta, il nostro critico cinematografico ci ha concesso di pubblicare in esclusiva. Da leggere.

di Massimo Mirra

Entrambi questi due immensi creatori d'arte sembrano avere un unico, indissolubile ed incontestabile elemento in comune, nel segno ovviamente delle loro inconfutabili differenze di impronta stilistica e di mescidanza linguistica, caratterizzato da quella loro viva e voluta capacità di non saper fare a meno di produrre ed architettare unicamente capolavori di tipo artistico. Marco Bellocchio, con il suo usitato sguardo sempre proteso e rivolto ai variegati generi, unificati, all'uopo, nel novero della grande arte cinematografica; Mario Martone nella sua, ormai, precipua ed originale capacità, oserei dire unica in Italia, di esaltare, ai massimi livelli, il senso profondo della sua visione organica dell'arte in sé, in linea, peraltro, con quella conclamata visione o questione del Gesamtkunstwerk (in lingua tedesca: "opera d'arte totale") di wagneriana memoria. Dopo l'indiscusso capolavoro "Qui rido io", a mio modo di vedere il miglior film di quest'anno (2022), Martone sembra essere approdato al Festival di Cannes 2022 con un ennesimo capolavoro: "Nostalgia", tratto dal pluridecorato ed omonimo romanzo di Ermanno Rea del 2016. Il film del cineasta partenopeo oltre a ricordarci, stans pede in uno, il "Primo uomo" (2012) del tetragono Gianni Amelio - film peraltro tratto da un romanzo autobiografico ed incompiuto di Albert Camus e pubblicato postumo soltanto nel 1994 - sembra addirittura esserne e costituirne una sorta di storia parallela, ancorché non ambientata in quella Algeria ancora perdurante colonia francese così come lo è stato il film di Amelio, in perfetta sintonia, peraltro, con il romanzo di Camus. Il parallelismo, in riferimento ai due capolavori, lo si intravede soprattutto nel modo in cui sono stati raccontati i fatti, intrisi di una sconcertante ed estrema forma di solitudine, inerenti ai ricordi dell'infanzia sia del protagonista Jacques, nel film di Amelio e nel pieno di quel conflitto che oppose il Fronte di Liberazione Nazionale (guidato da indipendentisti algerini) all'esercito coloniale francese; sia di Felice Lasco (protagonista del film di Martone) la cui sofferenza lo condurrà camusianamente alla verità. Con "Nostalgia", Martone ci immerge, a piene mani, nel tipico ambiente napoletano di uno dei quartieri, o meglio rioni, più densamente popolati, degradati, ma anche caratteristici della cultura partenopea, come appunto il Rione Sanità. Quel Rione, nel ventre di Napoli, peraltro fonte di ispirazione, in molti film e capolavori teatrali, dell'incommensurabile Eduardo, del giammai dimenticato Vittorio De Sica e del mai domo Roberto Rossellini, ma anche il luogo natio del più grande attore comico del Novecento: Totò, capace di galvanizzare ed appassionare, in toto, la folla senza mai fenderla.

Quella sorta di iniziale ritmo lento, nonché indolente e sofferente, inerente al film martoniano, che si inerpica a fatica lungo la profonda meditazione di Felice Lasco - magistralmente interpretato e soliloquiamente dialogato da Pierfrancesco Favino, con la sua poliedrica ed ampia modulazione di tipo linguistico - che ritorna dopo circa quarant'anni nella sua terra natia, ritrovando, nostalgicamente, la sua perduta infanzia, l'amico fraterno di un tempo (Oreste Spasiano) - interpretato sublimemente da Tommaso Ragno - e, dulcis in fundo, la madre morente; si velocizza, vieppiù, nel corso del film attraverso il modo in cui i fatti accadono e riprendono l'azione sulla base della tipica e labirintica suspense del non detto e del non visto. Persino la sottesa e racchiusa storia all'interno del film, diretto magistralmente e grandemente da Mario Martone, nella sua proverbiale ed inevitabile lentezza, a tratti sincopata e a mo' di profonda meditazione, in riferimento al protagonista (Felice Lasco) che vaga senza meta alcuna nella Napoli del quartiere Sanità, con la sua mescidanza linguistica incentrata su una apparente afasia, sui tipici accenti obnubilati, dal sapore arabeggiante, misti, però, al giammai dimenticato dialetto di impronta partenopea; sembra velocizzarsi e dilatarsi nel corso delle azioni sempre veritieramente motivate e degli eventi perspicuamente raccontati, adontando, ma solo apparentemente, il Rione in sé, attraverso l'esibizione perenne dei profondi ed atavici mali di quella martoriata Città - pars pro toto - che non sembra aver cambiato aspetto, connotato e struttura rispetto a quarant'anni fa. Nel mentre Felice, con tanta protezione diuturna, dialoga telefonicamente con l'amata moglie rimasta al Cairo (Egitto), laddove entrambi si sono rifatti una nuova vita sul piano imprenditoriale; il parroco del bistrattato quartiere: Don Luigi Rega - interpretato magnificamente da Francesco Di Leva - riuscirà a portare a più miti consigli, con la sua encomiabile acribia e dedizione, molte giovani vite che altrimenti si sarebbero perse nei meandri di quella peculiare microcriminalità della Sanità, facente capo all'atipico ed emergente boss denominato: Malommo. L' incontrastato boss del Rione Sanità, nella sua infernale sabba, con i suoi consiglieri usi alla piatta obbedienza di tipo patriarcale e col suo perenne ramingare e vagabondare nella tetra e notturna Città, attraverso quel suo corpo prestante introdotto in una stravagante tuta modaiola capace di coprirgli persino quel capo che non gli dà requie, non sembra però né nutrire, né addivenire la benché minima forma di volontà rispetto ad un suo probabile ritorno, nonché reintegro, al passato. Per contro Felice, auspicando esattamente il contrario rispetto a quanto sostenuto e prospettato dall'amico fraterno di un tempo, indurrà quest'ultimo a perpetrare ai suoi danni la fatale e conclusiva coltellata addominale, togliendogli, ineluttabilmente, i suoi ultimi parchi piaceri in riferimento a quel futuro che non vedrà giammai il suo compiersi. Questo continuo ritorno, da parte del protagonista principale, al tema del dolore, riprendendo il significato sul piano etimologico del concetto di nostalgia, infarcisce freudianamente la sua mente di ricordi ormai rimossi e quindi rimasti nel suo inconscio, proprio perché la coscienza sembra rifiutarli e persino non accettarli. Il Götterdämerung (in lingua tedesca: "il crepuscolo degli dèi") di Felice segna appunto la fine di tutto o forse anche un nuovo inizio attraverso la precipua riflessione che il bene prevarrà hic et nunc sull'inesorabile male. A sostegno di ciò si inserisce, come d'incanto, il perfetto montaggio di Jacopo Quadri che nel cambiare l'aspect ratio della stessa immagine, capace di ruotare e muoversi tra i variegati formati panoramici, ne comprime il presente, decomprimendone e dilatandone il passato attraverso l'artifizio narrativo analettico del flashback, nella vana e vaga illusione di rivivere qualcosa che non può e potrà più essere vissuto.

Che Cannes 2022 non abbia premiato doverosamente il film di Martone costituisce lapalissianamente una non novità, ben sapendo che lo stesso festival vive ormai, da anni immemori, una ineluttabile e profonda crisi di tipo contenutistico, nonché formale, da cui difficilmente potrà vederne il risveglio o una degna uscita, nonostante la callida destrezza di ordine commerciale mossa ad arte dallo stesso.

Sul fronte diametralmente opposto, ma a parità di merito artistico, ancorché presentato fuori concorso a Cannes 2022, il geniale e ottuagenario regista piacentino: Marco Bellocchio esibisce la sua ferma ed intramontabile vitalità artistica, nonché lucidità di sguardo millimetrico, riportando in auge il caso Moro - da lui già magistralmente diretto e rappresentato con lo splendido, onirico e visionario "Buongiorno, Notte" del 2003 - con la prima parte del film "Esterno Notte" - la seconda parte è uscita il 9 giugno al cinema, mentre prossimamente su Rai1 sarà trasmessa e quindi andrà in onda la prima serie televisiva costituita da 6 episodi complessivi ed integrali. Il film è interamente incentrato sul rapimento del grande politico pugliese: Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e sui variegati, ed in parte risaputi, tentativi, comminati e perpetrati, callidamente, dai suoi innumerevoli detrattori ai danni dello stesso statista pugliese, con l'ottenebrata ed ambigua finalità non tanto di liberarlo dalla terribile ed agonizzante prigionia, amaramente inflittagli - segnata e stigmatizzata, peraltro, da reticenti lettere da parte della vittima designata (Aldo Moro) e da brevi e imbolsiti comunicati stampa da parte dei suoi visionari e mai probi carnefici ( brigatisti), quanto di volerlo vedere più morto che vivo. L'encomiabile e grandiosa interpretazione di Fabrizio Gifuni, nei panni del grande politico pugliese, risulta essere davvero sublime. Nessun attore italiano e non solo - escluderei, a tal uopo e con dovizia di particolari, soltanto il poliedrico Gian Maria Volonté, per la sua grandezza interpretativa - è riuscito ad essere così credibile e profondo nella interpretazione del personaggio moroteo, ma anche così, verosimilmente, simbiotico nel suo essere anche solo e soprattutto sé stesso. La sua ormai proverbiale, nonché raffinata, modulazione linguistica, in perfetta sintonia con la combinazione del personaggio rappresentato, sembra riportarci alla memoria alcuni importanti e memorabili discorsi politici di Moro, dal piglio spesso rabdomantico e visionario. La regia dell'etereo Marco Bellocchio sembra essere tanto eccelsa, quanto l'interpretazione di Fabrizio Gifuni sommamente sublime e divina. Alla stessa stregua penso e credo che Francesco Gifuni avrebbe potuto interpretare divinamente, se solo avesse avuto o posseduto il dono dell'ubiquità, anche il personaggio di Papa Montini, reso, a mio modo di vedere, inconsistente e a tratti ridicolo dal pur bravissimo Tony Servillo.

Secondo alcune notizie propalate ad arte sia dai dante causa del regista piacentino, sia dai grandi circuiti e settori della buona critica cinematografica, la seconda parte di "Esterno Notte" sembra addirittura, artisticamente, elevarsi rispetto alla prima parte, peraltro già vista come un'aureola di maggior prestigio e, giustamente, decantata ed elevata al rango degli onori e degli dei.

IN RICORDO DI ROBERTO ROSSELLINI A 45 ANNI DALLA MORTE

Buona parte del del ventesimo secolo è stata attraversata da questo grande personaggio, che con grande intensità e passione ha affrontato la vita, la società e la storia. Ne onora la memoria il nostro critico cinematografico, con uno squarcio alato.

di Massimo Mirra

In occasione del quarantacinquennale della dipartita di Roberto Rossellini: Il 3 giugno del 1977 sarebbero trascorsi esattamente 45 anni dalla morte di Roberto Rossellini - cineasta della modernità, umanista a tutto tondo, pensatore atipico, genio del cristianesimo, pedagogo di impronta comeniana, nonché filosofo dello splendore del vero - ed è stato lapalissianamente naturale che tutte le forze democratiche, gli studiosi ed intellettuali più illustri, gli appassionati di cinema in generale avessero inteso celebrare degnamente questo importante anniversario, analizzandone la vastissima produzione cinetelevisiva, dal portato rivoluzionario, e valutandone l'acuto spessore della proposta culturale, peraltro originalissima, di cui Rossellini si fece, profeticamente, autentico interprete. A tal proposito iniziative, di maggiore e minor spicco, si sono segnalate ovunque. Calitri e Campagna hanno certamente onorato questo importante momento, grazie soprattutto alla spiccata sensibilità dei dirigenti scolastici: Prof. Gerardo Vespucci, Prof. Pietro Mandia e Prof.ssa Rossella De Luca.

Se Roberto Rossellini tornasse, oggi, redivivo, ancorché la sua anima vaghi da qualche parte con il suo corpo completamente imputridito per non dire smaterializzato, porterebbe con sé ancora la sua opera omnia di impianto cinetelevisivo, peraltro ben presente in tutti noi. L'incommensurabile " Maestro dell'inventare il reale", attraverso l'artifizio fantastico della macchina da presa improntata alla poetica del vero cinematografico, ma nella sua primigenia direzione di tipo storico-didattico - in riferimento soprattutto a quel cinema considerato pietra angolare della modernità - assurge all'onore della cronaca come l'unico ed autentico padre Adamo dalla cui costola è sopraggiunto, come d'incanto, tutto il cinema dall'immediato dopoguerra in su. Rossellini, amato e venerato da tanti quanto poco apprezzato e considerato da altri, è stato, in primis, il teorico di un cinema poco estetizzante e dal sapore antispettacolare, orbo del benché minimo artifizio dal profilo drammatico imperniato peraltro sul colpo di scena o sul manierato sentimentalismo dal sapore più becero e a tratti retrò; in secundis, il teorico di quel cinema, incentrato sulla introspezione di tipo psicologico-esistenziale di impronta spirituale, attraverso cui va indagando l'uomo a tutto tondo. In ultima istanza, non certamente per ordine di importanza, Rossellini è stato anche il teorico, quasi assoluto e vieppiù solitario, di quel cinema storico-didattico, a mio modo di vedere superlativo, di impronta televisiva - ossia di una sorta di enciclopedismo dal profilo audiovisivo non tanto od esclusivamente dei sentimenti quanto piuttosto della storia totale dell'umanità, del sapere umano e del pensiero umano - necessario e precipuo sia ai fini di propalare quella giusta conoscenza all'insegna di quel tipico realismo cosi fortemente auspicato, sia ai fini di realizzare, forse utopisticamente, quella sorta di educazione permanente, continua ed integrale tesa ad informare, istruire e formare l'uomo per l'intero arco o ciclo di vita - dal primo giorno di scuola (nascendo) all'ultimo giorno di vita (morendo), sintonizzando così il tema dell'educazione "lato sensu" con quello tragicomico dell'esistenza " stricto sensu", ma non nella esclusiva direzione di quella forma educativa imperniata sulla assenza di valorizzazione alla unicità dell'essere umano.

INIZIA AD EBOLI IL SUO CAMMINO UNA NUOVA REALTA' DEL TERZO SETTORE: CINEMA SOCIALE99

di Massimo Mirra, Luca Guardabascio e Anna Maria Giordano

Sabato 30 Aprile farà la sua prima uscita ufficiale una nuova realtà del terzo settore: Cinema Sociale99. La mattina si terrà la conferenza stampa di presentazione dell'associazione, alla Biblioteca Comunale di Eboli alle 10:45, a cura del regista Luca Guardabascio e dell'Avvocato Anna Maria Giordano, affiancati dagli attori Anna Rita Del Piano, Giordano Petri, Fabio Mazzari, Francesco Baccini e Clayton Norcross, il presidente dell'associazione Rossella Corrado, il sindaco di Eboli Mario Conte e il vicesindaco Enzo Consalvo. La sera, alle 19:45, Cinema Sociale99 offrirà alla stampa e agli ospiti una serata all'insegna di "Sapere,Pace, e Conoscenza", sulla base degli eventi di beneficenza fortemente voluti da Fabio Mazzari al Teatro Zazie di Milano. Aprirà la serata Mazzari con letture di Checov, tradotte da lui e dalla moglie scomparsa, tra cui “Morte di un impiegato”, “Lo studente” e “Uno scherzetto”, ed estratti da “Una scimmia all’Accademia” e “L’ultimo messaggio dell’Imperatore” di Luca Guardabascio, ispirato a Franz Kafka. Il cantautore Francesco Baccini reciterà e commenterà in prosa le sue canzoni “Ho voglia di innamorarmi” e “Ti amo e non lo sai”. Il maestro Giuseppe del Plato eseguirà in un suo arrangiamento i brani “Paganini Ghiribizzi” 20, 22 e 27 e il brando folk popolare abruzzese d’inizio ‘900 “Nebbia alla Valle”, cantato da Anna Rita Del Piano. Infine, saranno letti dei passi tratti da “Jacopone da Todi, “Dante Alighieri”, “Pascoli” e “Leopardi” da Giordano Petri e da Anna Rita Del Piano. La serata consentirà al pubblico di sfiorare, comprendere ed aderire ad un sogno, diventando tutt'uno coi propri conflitti inconsci da individuo ed essere umano. Mai come oggi, per Cinema Sociale99, servono al mondo sognatori decisi, uniti dallo stesso battito e respiro, di mandare all'unisono un urlo di libertà e pace, intrattenendo formando ed istruendo alla vita sociale e alla diplomazia.

CARLO LIZZANI A CENT'ANNI DALLA NASCITA: STORICO, REGISTA, SCENEGGIATORE, INTELLETTUALE E PRODUTTORE

La figura del grande regista romano, che con la macchina da presa ci ha lasciato spaccati unici dei tratti del nostro Paese, viene ricordata dal nostro critico cinematografico. Ne viene fuori il profilo di un grande intellettuale, di uno storico, di un uomo in cui essenza e profondità, intuizione e genio si sono incontrati in un modo mirabile. Da proporre assolutamente alle nuove generazioni.

di Massimo Mirra

Cent'anni fa nasceva Carlo Lizzani (3 aprile 1922, Roma), un raffinato intellettuale, nonché profondo storico, dietro la macchina da presa, in grado di lavorare per la sua intera carriera artistica, comprensiva di una vasta e importante filmografia, sul difficile rapporto tra Cinema e Storia e sul più specifico nesso o legame tra Storia - il già accaduto - (in particolar modo quella di natura contemporanea) e Cronaca - l'accadere presente. Il grande Maestro romano riuscì con grande abilità, nonché impressionante capacità, laddove non riuscirono o osarono gli altri registi a lui coevi, cioè quello di storicizzare personaggi della cosiddetta umile cronaca o cronachizzare illustri personaggi della grande storia. Nel suo importante, suadente e lungo percorso artistico, Lizzani ebbe, però, un grande mentore, nonché nume tutelare, come Roberto Rossellini. Lizzani fu quindi un uomo di cultura a tutto tondo, con il quale peraltro mi onoro di aver partecipato, come relatore, circa dieci anni fa - l'anno precedente la sua tragica ed assurda dipartita, avvenuta il 5 ottobre del 2013 a Roma - ad un importante e fondamentale convegno sul Neorealismo Cinematografico, tenutosi a Firenze. Lizzani parlò di Neorealismo ed io subito dopo che ebbe terminato il grande Maestro, con voce flebile e commossa, relazionai sulla immensa, irremovibile e tetragona figura di Roberto Rossellini, del quale peraltro Lizzani fu anche aiuto regista nello stupendo film "Germania anno zero", del 1948. Carlo Lizzani non fu per niente una figura marginale nell'ambito del mondo culturale del suo tempo e nel suo tentativo, riuscito a menadito, di offrire uno spaccato storico, in riferimento ai variegati momenti che lo hanno contraddistinto, sia come materia di un film, sia come ampio e perspicuo documento per la Storia. Pur mancando di una immediata e rapida popolarità, seppe fondere ecletticamente, e fu tra i pochi a farlo grandemente, la sua incommensurabile regia filmica con la sua importante dote di studioso, nonché storico, del cinema italiano, scrivendone all'uopo la prima e monumentale Storia del cinema italiano. Fu quindi un fine e prezioso storico del cinema, un immenso intellettuale, un partigiano della resistenza, un ricercato e grande regista, un prolifico sceneggiatore, un raffinato critico, un audace produttore e, dulcis in fundo, anche un attore di matrice atipica. A differenza di tanti intellettuali del suo tempo, Lizzani considerò il Neorealismo Cinematografico, del quale fu peraltro un paradigmatico e significativo protagonista, un grande movimento culturale - e non una semplice e momentanea stagione dal sapore climatico - che ebbe al proprio interno delle spiccate, anche se diverse, personalità artistiche che si ritrovarono d'accordo su aspetti precipui ed importanti del loro periodo culturale, in quanto portarono ad un mutamento antropologico e ad una sorta di reinvenzione del linguaggio cinematografico, con la mescolanza dei variegati generi, l'uso del piano sequenza, la ridotta funziona del montaggio classico e la composizione del fotogramma. Nessuno potrebbe o oserebbe dimenticare opere filmiche di capitale importanza, di grande impegno civile, di inchiesta e di denuncia sociale come: "Achtung Banditi", "Il processo di Verona", "Mussolini ultimo atto", "Cronache di poveri amanti" - tratto da uno stupendo romanzo di Vasco Pratolini - e "Fontamara" - tratto da una monumentale opera di Ignazio Silone.

L'OSCAR DELLA DISCORDIA, DEL NONSENSE E DEL GESTO IMPROVVIDO DI WILL SMITH - 2022

Definito e inesorabile il commento del nostro critico cinematografico che, in esclusiva per il GRISSAR, ci propone un orizzonte di senso, forse perduto, per l'evento mediatico e culturale dell'anno. 

Penso che questa edizione inerente alla consegna degli Oscar - premio assegnato dal 1929, negli Usa, dall'Academy of Motion Picture Arts and Sciences - sia stata la peggiore, in assoluto, degli ultimi 20 anni. Annotiamo nelle nostre menti l'anno 2022. Salverei quattro importanti film: il giapponese "Drive my car" del meditativo Hamaguchi, "Licorice pizza" del poliedrico Paul Thomas Anderson, "È stata la mano di Dio" - anche se troppo intimista e local e quindi di difficile comprensione e poco recettivo rispetto ad un sistema, di impronta hollywoodiana, imperniato su tematiche di carattere più universale e forse, oggi, troppo radical chic e a tratti blasé - dell' incommensurabile Sorrentino - oserei dire soprattutto nelle pregresse opere filmiche, come "Il Divo", "Le conseguenze dell'amore, "L'uomo in più e "L'amico di famiglia" - e "La fiera delle illusioni" dell'eclettico Guillermo del Toro, già memore di un assoluto e pluripremiato capolavoro, come "La forma dell'acqua". A questo punto vi corre l'alea e forse il precipuo bisogno di rivedere, drasticamente, i criteri di selezione dei film, la dubbia ragione costitutiva dei giuriati, il debole vigore esperienziale, professionale ed analitico degli esperti - l'organizzazione infatti è composta da circa seimila professionisti, per lo più esperti del cinema di nazionalità statunitense, anche se vi sono grandi cineasti di circa 35 variegate nazioni - e la cornucopia edonista di una America che ormai non ha più nulla da insegnare a nessuno, visto che ha colonizzato persino le nostre povere, inerti ed inermi anime. Il tanto brutto quanto eclatante gesto di Will Smith - premiato, a torto o forse a ragione, con l'Oscar - rimarrà, probabilmente, il fiore all'occhiello di questa pessima edizione, criptando, a ragione, il vacuo elemento artistico di film sinceramente di pessima fattura culturale, artigianale e oserei dire persino in riferimento a quel naturale risvolto dal sapore commerciale, difficile da raggiungere rispetto a cotanta gratuita mediocrità. Insignire grandi cineasti, come la neozelandese Jane Campion - regista di grandi qualità artistiche e con un parterre di tutto rispetto - per un film questa volta prossimo alla più che conclamata mediocrità, come "Il potere del cane", non rende certamente onore alla regista premiata e diventa addirittura disdicevole e poco professionale per chi ne premia piuttosto il cursus honurum dell'artista, anziché l'opera in sé e nei suoi risvolti artistici e culturali. A questo punto penso che si dia una eccessiva, quanto maldestra, importanza alle cosiddette litanie omiletiche di un premio non più prestigioso come in illo tempore e, quindi, ci si dovrebbe, consapevolmente, spostare - in virtù di quel precipuo interesse artistico dell'opera filmica in sé non affrancato e disgiunto, però, dal pur necessario elemento di natura commerciale - verso altri importanti premi internazionali e nazionali come: la Palma d'oro, il Leone d'oro, il Golden Globe, L'Orso d'oro, il David di Donatello, il Nastro d'argento, il Globo d'oro, il premio Flaiano e, dulcis in fundo, il Ciak d'oro. Tutti questi variegati premi sono, oggi, molto più prestigiosi, eloquenti e significativi del famigerato premio Oscar, ossia di un premio consegnato ormai da un più che evanescente, atavico ed obsoleto establishment, pronto a seguirne sia le ossimoriche mode, sia le correnti politiche ed ideologiche di quel tempo adeso ad esse, dimenticandosi, troppo presto, di nomi prestigiosi, di grande rilievo artistico e di immenso fervore culturale come, sparando nel mucchio: Scorsese, Eastwood, Spielberg, ossia la trimurti artistica del nuovo secolo, in riferimento, ovviamente, alla settima arte o decima musa.

UNA REGINA DAI MILLE VOLTI, MA SENZA SAPERLO E CON TANTA MODESTIA: MONICA VITTI
Il nostro critico cinematografico entra nel "talento smisurato" della grande attrice, Idelineandone un contorno profondo e articolato, nell'arte e nella memoria.

Di Massimo Mirra

Muore a 90 anni la regina della commedia all'italiana, muore la donna più amata e benvoluta dagli italiani, muore una grande e talentuosa attrice (con una voce unica, roca e sensuale) - in grado di modificarsi da una interpretazione all'altra, espungendo o frangando il classico e comune cliché dell'attrice disgiunta, cioè o solo drammatica o solo comica - ed una sorta di eroina capace di interpretare ruoli memorabili e quasi sempre in chiave antidivistica.

Mentre vive e continua a vivere l'arte suprema della donna, nonché grande artista: Monica Vitti, che oggi è scomparsa alla venerabile età di 90 anni e continuerà, quell'arte divina e sublime, a sopravvivere domani e sempiterna in virtù della sua capacità di inscenare, attraverso la luce abbagliante del proscenio artistico - qualche anno addietro ebbe modo di lavorare anche con il grande Eduardo in tv, in "Il cilindro"- quel magico mondo da lei creato e visto attraverso l'occhio visionario ed immaginifico della decima musa o della settima arte. Io vorrei ricordarla soprattutto come l'indiscussa interprete della tetralogia filmica di impronta esistenziale dell'incommensurabile Michelangelo Antonioni ( sua autentica musa e compagna di vita sia artistica, sia sentimentale), con ben quattro capolavori al seguito, come "L' avventura"(1960), "L'eclisse"(1962)"La notte"(1961) e "Deserto Rosso"(1964), all'insegna della più assoluta incomunicabilità borghesemente rappresentata, in cui Monica Vitti riuscirà a condurre, quasi per mano, l'aporetico spettatore, in preda al suo stato di alienazione e di esacerbata nevrosi, garantendogli a tal uopo una ennesima forma di sopravvivenza, dinanzi e rispetto al probabile spettro di un insanabile conflitto interiore, resosi, però, evidente attraverso il lungo ma numinoso percorso artistico del tempo filmico. I due giganti buoni del cinema italiano (morti invitti ed ecisti di un nuovo e rivoluzionario modo di fare cinema), come Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, con pochi sobri aedi, rapsodi o semplici turiferari al seguito - l'uno silente e adeso alla quintessenza dell'immagine filmica (contrassegnata dalle apparenti digressioni, dalle dilatazioni temporali e dagli irrefrenabile tempi morti) e che con la celebre tetralogia, imperniata sulla malattia dei sentimenti, arriverà alla maturazione più compiuta della sua visione artistica e alla stagione più fulgente del suo cinema; l'altro tanto onirico e visionario, quanto supremo creatore di immagini nel segno della più assoluta magia e ai limiti di quella deformazione iconoclasta depurata attraverso la sottile lente della memoria - hanno segnato il tempo eterno dell'arte del cinema italiano: quel cinema all'unisono scettico e magico. Rispetto al mondo artistico, dal sapore alienante, creato da Michelangelo Antonioni - nella sua immensa capacità di far diventare il sentimento immagine e l'immagine sentimento - e giammai disdegnando quello magico di Federico Fellini, la stessa Monica Vitti, ancorché attrice e figura artistica tipicamente antonioniana e poco felliniana, ne è stata la sublime ed assoluta interprete, nonché musa di riferimento, di un qualcosa che pur non rimandando al domani quello che si poteva fare oggi, ha saputo regalarci un futuro all'insegna di una chiave artistica dal sapore eterno, senza eguali e forse senza erede alcuno.

"QUI RIDO IO" DI MARIO MARTONE: EDUARDO SCARPETTA, TRA VITA E PALCOSCENICO

Il critico cinematografico Massimo Mirra scandaglia l'opera di Martone, delineandone i sublimi tratti che ne fanno un autentico capolavoro, una vera e propria "pentalogia della rediviva napoletanità".

di Massimo Mirra

Lo stupendo film di Mario Martone si muove tra l'atipico biopic - nella sua rievocazione storico - culturale, della Napoli agli inizi del '900, inerente alla immensa figura, intrisa di pura genialità, di Eduardo Scarpetta - e la primigenia finzione scenica dei tanti protagonisti memori, di una gustosa rievocazione della Belle Époque napoletana dove la materia di impronta teatrale viene rappresentata in termini per niente oleografici, e consapevoli di aver reso grande il nuovo teatro popolare napoletano. Il film è e costituisce in realtà un incommensurabile capolavoro filmico, capace di oltrepassare gli ormai ossidati e atavici generi, all'interno dei quali lo si cerca, da parte di qualche sprovveduto, o lo si vorrebbe cercare, artificiosamente e artatamente, di racchiudere o, addirittura, confinare.

Più che di una trilogia della rediviva napoletanità si potrebbe parlare, a mio modo di vedere, di una sorta di pentalogia della rediviva napoletanità - con "Noi credevamo", "Il giovane favoloso", "Capri - Revolution", "Il sindaco del rione Sanità" e, dulcis in fundo "Qui rido io“- sotto l'egida di una forma d'arte dal sapore numinoso e racchiusa nell'aura di un polittico alla ricerca di un primigenio sentimento di carattere nazionale. I cinque film, compresi all'interno di questo polittico, evidenziano e tratteggiano sicuramente un richiamo o rimando storico di impronta nazionale, nonché risorgimentale in lato sensu, ma non abdicano giammai a quella identità meridionale dal sapore piuttosto partenopeo, peraltro vieppiù anelata dall'autore, oserei dire con grande creatività mista ad una fulgida dose di immaginazione intrisa di arte pura. Insomma con questo abbrivo, gli ultimi cinque film di Martone, molti dei quali interpretati grandemente e sublimemente da Tony Servillo, costituiscono un corpus omogeneo nella ricca e variegata filmografia martoniana.

Il nuovo film di Martone nel raccontare, ricostruire e rievocare la storia della dinastia degli Scarpetta, in primis del patriarca della grande famiglia nella sua più assoluta ed inesauribile fonte di genialità: EDUARDO (drammaturgo, capocomico ed interprete) ed in seconda istanza delle sue innumerevoli amanti, delle dolenti mogli e dei suoi tanti figli legittimi (Vincenzo e Domenico, sparando nel mucchio) ed illegittimi, come i tre fratelli De Filippo (Eduardo, Peppino e Titina) assurti al rango degli onori come i veri e unici continuatori della grande ed innovata tradizione del teatro popolare; dicevo appunto tenta, riuscendoci oserei dire a menadito, di tratteggiare, sapientemente, gli aspetti salienti e caratteristici di quella Napoli, nel pieno della Belle Époque, insignita a vessillifero della rinascita di quel atrofico e spento dibattito intellettuale europeo e divenuta la città simbolo del risorgimento culturale del redivivo Regno d'Italia. Basterebbe, per rendersene conto ed essere edotti, guardare e visionare la breve inserzione inerente al materiale di repertorio posto in esergo alla scena iniziale del film, laddove si evidenzia, ancorché in pochi frames di pellicola, una perfetta ricostruzione dal basso del clima della Napoli dell'epoca, peraltro già città importante del Regno d'Italia.

Eduardo Scarpetta, nel suo ricercato e giammai manierato binomio arte - vita, tenta di spettacolarizzare ogni benché minimo aspetto o ricordo di quella vita da lui tanto esaltata e scritta con audace capacità artistica, ma in ciò sembra piuttosto scriverla - concedendosi ad un italiano spesso rabbonito, ammansito e flesso al dialetto - vivendola che viverla, scrivendola. La grande abilità di Scarpetta nel sostituire, con la maschera di Felice Sciosciammocca, il vecchio teatro di impronta popolare di Pulcinella - la maschera più nota della commedia dell'arte dell'Italia meridionale - e dei Petito - con il suo più celebre e capace interprete della sempiterna maschera teatrale di Pulcinella, come Antonio Petito - ha fatto sì che il nuovo teatro popolare ruotasse intorno a quegli elementi intrisi del più fervido rigore professionale e al cui interno potessero persistere: l'impegno assoluto, la fedeltà e devozione al testo scritto, l'assenza della benché minima forma di improvvisazione. Ma quando, ormai, Eduardo Scarpetta sembra aver raggiunto l'apogeo del successo artistico, professionale, economico e personale, sarà proprio il grande poeta Gabriele d'Annunzio, alias Rapagnetta, a sbarrargli la strada, intentantogli una causa per plagio in riferimento ad una sua parodia nei riguardi di una importante opera teatrale del Vate: "La figlia di Iorio”. Che si sia trattato di plagio, di parodia e/o addirittura di contraffazione saranno i grandi intellettuali del tempo in oggetto, come Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco - l'antifascista intransigente - Libero Bovio ed altri, a testimoniarlo e renderlo noto, trascinando Scarpetta sul banco degli imputati, anche se poi sarà completamente assolto, vincendo a tal uopo la sua più temibile, forse ultima e irrefrenabile partita. Soltanto Benedetto Croce riuscirà ancora ad essergli fedele e devoto amico, pronunciandone la mitica battuta, all'insegna della risoluzione compromissoria del caso, in riferimento al concetto del ridicolo come rovescio del sublime.

In conclusione, possiamo dire con convinzione assoluta, che con "Qui rido io", Mario Martone ha dato vita all'ennesimo capolavoro, forse il suo più definito, imperniato sulla inequivocabile mescidanza linguistica, e di livelli narrativi, intrisa di variegati elementi come: l'incommensurabile interpretazione di Tony Servillo - personaggio scritto su misura per lui - nei panni del geniale Eduardo; l'encomiabile sceneggiatura del duo Martone - Di Majo; l'importante riflessione sulla famiglia teatrale a mo' di patriarcato, prima degli Scarpetta e poi dei De Filippo; la meravigliosa colonna sonora intessuta di magnifiche note musicali di impronta napoletana.

Al di là di una pur esile, sbiadita e forse sminuita considerazione in riferimento al grande Peppino De Filippo, bambino mandato a balia in tenerissima età - elemento di per sé non degno di nota - e di una non definita, nonché perspicua, risoluzione della non scabra disputa o contesa tra il nuovo teatro popolare, nei suoi aspetti apparentemente più risibili perché imperniato su risate fragorose, rappresentato dagli Scarpetta, nonché De Filippo, e il cosiddetto teatro d'arte, nei suoi aspetti più realistici ed autentici, rappresentato dai Di Giacomo e dai Bracco; Martone sembra dimostrare, a ragion veduta e in una maniera piuttosto conclamata e convincente, di essere, di concerto con Paolo Sorrentino, il più grande, nonché creativo, autore a tutto tondo che il mondo dello spettacolo odierno possa, oggi, vantare in Italia e non solo.

"NATALE IN CASA CUPIELLO" DI EDOARDO DE ANGELIS, UN' OPERA DEGNA DELLO SPIRITO DEL NOSTRO TEMPO

Il nostro critico cinematografico a tutto campo sul film tratto dalla celebre commedia tragica di De Filippo: pochi chiarori, molte pecche. Quasi nessun ricordo dei 120 anni dalla nascita del grande genio.

di Massimo Mirra

Il 22 dicembre su RAI 1 è andata in onda, in prima serata, la più orrenda trasposizione filmica in chiave televisiva mai vista dell'immenso capolavoro teatrale di impronta eduardiana: "Natale in Casa Cupiello". Come sia potuto accadere non è dato saperlo, ma probabilmente c'entra molto il drammatico, o forse tragico, periodo che stiamo vivendo, capace di deturpare persino lo spirito di capolavori ritenuti senza tempo, atemporali e di imperitura memoria. Nulla funzione in questa orrenda trasposizione cinetelevisiva, a mo' di fiction, applicata al teatro e ciò che manca del tutto è in primis la sola cosa che realmente importa in una qualsivoglia opera di impronta teatrale o cinematografica, cioè il ritmo. Ma il ritmo non si impara, lo si porta dentro. Poter giudicare questa ridotta, esulcerata e blasfema versione solo per il suo contenutismo di impianto eduardiano sarebbe del tutto superfluo e forse inutile. Il problema è che voler persino giudicare l'autore Edoardo De Angelis - peraltro bravissimo cineasta per aver posto in esergo la preziosa firma già di qualche pregresso capolavoro - solo per il suo detto costituisce o potrebbe costituire addirittura una gran fatica sia per gli addetti ai lavori, sia per i tanti e basiti spettatori, lì pronti a rivedere la probabile resurrezione di un capolavoro lasciato, ingiustamente, abortire sin dalla sua nascita. Castellitto, bravissimo attore cinematografico adeso al laboratorio per la formazione al mestiere dell'attore dell'actors studio capace quindi di immergersi nella psicologia del personaggio rendendosene perfettamente edotto, non riesce a rendere, dando poca dignità al personaggio principale interpretato dal grande Eduardo, ciò che solo Eduardo poteva consentirsi di fare. Tutto il resto diventa in questa sorta di fiction applicata al teatro davvero poca cosa - Nicolino inverosimilmente molto più anziano del suocero Luca, Concetta perpetuamente anaffettiva, Nennillo non degno di essere definito interprete, zio Pasqualino dal volto davvero poco espressivo, Vittorio Elia e Ninuccia due piccole comparse ai limiti della benché minima decenza interpretativa - rispetto quindi a tutti i pregressi interpreti che pur si sono cimentati e succeduti nel corso delle varie trasposizioni teatrali spesso anche di impianto televisivo, ancorché realizzate tutte da Eduardo, ma con interpreti appunto variegati e di grande bravura recitativa. Forse il bisogno di accertare interpreti inerti e privi di slancio vitale riflette la caduta di quella vena espressiva del teatro dei nostri tempi, anche se l'arco di tensione dei variegati interpreti si accompagna ad una presunta ricerca, così come ebbe a scrivere di quell'impulso emotivo Tolstoj che voleva e riteneva indispensabile ad ogni espressione artistica. La parte finale dell'opera biascicata da inutili e inadeguate giaculatorie da parte di Castellitto nella veste di Luca ormai morente, davvero fiacca e priva del benché minimo pathos, tende ad esibire quella sorta di lirismo e sentimentalismo di maniera capace di sfociare nella mistificazione più generica, deprivando così l'opera addirittura del suo primigenio contenuto: la cultura della napoletanità vista attraverso la sacralità del presepe. In tutto ciò salverei soltanto le impreziosite note musicali finali del sempre immenso Enzo Avitabile. C'è però da dire che ad interpretare una qualsivoglia opera di Eduardo, per quanto riletta in chiave moderna, non potrebbe che essere solo, sempre e unicamente Eduardo a farlo, anche pressoché redivivo: già definito da Orson Welles, oserei dire lapalissianamente, se non il più grande autore italiano del Novecento - forse lo è stato più quel Pirandello che, del resto, Eduardo ha in varie circostanze dichiarato di considerare il suo maestro - certamente il più grande interprete teatrale d'ogni tempo. Castellitto ha voluto osare - in ciò gli va tributato l'onore delle armi per averlo fatto, ma la grandezza dell'opera eduardiana oltre che nel testo e nella direzione artistica sta soprattutto nella difficile interpretazione del personaggio chiave e lì Eduardo diventa davverro insostituibile e non vi è e non vi sarà giammai un Castellitto di turno, per quanto bravo ed abile, capace di reggerne o tenerne il benché minimo confronto - ma nel farlo ha osato davvero male, talmente male da poter essere ritenuto, a mio modo di vedere, in quest'opera bruta e stolida, l'unico vero gigante in mezzo a tanti nani.

Bisogna inoltre dire con assoluta fermezza che, a 120 anni dalla nascita del genio Eduardo e al di là di questa atipica e sdilinquita versione di "Natale in casa Cupiello" promossa dalla RAI, non è stata proferita una parola di elogio nei suoi riguardi o espresso il benché minimo atto di commemorazione oppure semplicemente istituito un piccolo epitaffio capace di ricordare il genio "dimenticato", da parte sia di Napoli sia degli stessi napoletani. Ricordare Maradona, genio del calcio, è stato un atto apprezzabile, ma come ci si può dimenticare di questo genio, ormai solitario, come Eduardo. Come è possibile che nessun napoletano abbia ad indignarsi? Forse perché, come direbbe Nietzsche, nessuno mente più di un indignato? Io provo una vergogna immane da campano, ma ancor più da persona dedita alla piacevole visione dei suoi innumerevoli capolavori teatrali. Insomma noi abbiamo il privilegio di aver dato i natali al più grande attore di ogni tempo e non gli tributiamo il giusto onore e dovuto merito. Non ci resta, troisianamente, che piangere.

ENNIO MORRICONE: LA MORTE INVISIBILE DI UN GENIO SENZA EREDI

E' con un commosso ricordo che il nostro critico cinematografico celebra la scomparsa del grande musicista. Un tenue ritratto che proietta l'uomo e l'artista verso lidi di soprasensibile memoria.

di Massimo Nirra

Cosa resterebbe, ormai, di questo misero e torbido mondo se gli togliessimo persino la delizia della sublime e sempiterna arte musicale dal sapore morrichiano inerente alle circa trecento colonne sonore perfettamente e sincronicamente imperniate sull'univoco e inscindibile rapporto tra storie, immagini e variegati generi? Direi assolutamente nulla, se non il probabile auspicio di un mondo diverso e tutto incentrato sull'arte in quanto piacere disinteressato o ancor più "pura finalità senza scopo", osservandone rigorosamente il precetto kantiano. Ed è proprio ciò che è riuscito a fare il grande Morricone: dimenticarsi del brutto, proponendone il bello e a tratti il sublime. Morricone è stato, di concerto con l'incommensurabile Nino Rota, il più grande compositore italiano, e non solo, di musiche da film, oserei dire d'ogni tempo; ma se ci fermassimo a ciò non ne esemplificheremmo il suo geniale talento che ne ha segnato l'insuperabile grandezza artistica. Morricone è andato oltre, gettando rilkianamente il cuore oltre l'ostacolo, perché la sua geniale musica filmica ha sempre determinato la riuscita, nonché rinascita, artistica del film in quanto opera sublime nel suo solo farsi. Immaginiamo anche solo per un torno di tempo limitatissimo due superlativi film, come "C'era una volta in America" di Sergio Leone o, in tono minore, "Mission" di Roland Joffè, privi delle bellissime musiche di Ennio Morricone o non supportati da un sedulo e architettato profilarsi delle stupende note musicali dello stesso. Quale sarebbe stata l'alea dei due incantevoli film? Avremmo avuto comunque, in riferimento al primo citato, un incommensurabile capolavoro ma nel quale la musica non si sarebbe certamente modellata sul film a prescindere dai canoni di riferimento ed, in merito al secondo, un grande film, ma senza gli stupendi suoni fuoriusciti dal magico flauto di padre Gabriel circondato da indigeni armati e in piena area forestale. Insomma sarebbe venuto meno quel tocco geniale tipicamente morrichiano del dipinto dell'anima di ogni singola immagina personificata, distillata, meditata, rappresa e scolpita nel tempo e non è certamente cosa da poco. Dulcis in fundo ricorderei anche le malinconiche note finali, in riferimento al trascorrere dei sublimi fotogrammi, di tante storie d'amore, a suo tempo sottoposti a censura, di "Nuovo Cinema Paradiso" di Giuseppe Tornatore. La dipartita del Maestro costituisce e costituirà una grande perdita per le nostre orecchie, soprattutto quelle abituate alla musica dell'anima, e una immane privazione di un superlativo artista da parte dei futuri grandi cineasti che continueranno, comunque, ad essere tali, ma con un tocco, tra l'immaginifico e la poesia, in meno, quello dell'incontrastato genio senza eredi: ENNIO MORRICONE.

CLINT EASTWOOD, MITO SENZA STECCATI

E' stato sindaco di una cittadina americana di qualche migliaio di abitanti, qualcuno l'ha tirato più volte per la giacca addirittura per importanti incarichi governativi, ma resta sempre e solo il grande Clint Eastwood, a noi italiani tanto caro anche per i suoi trascorsi "sergioleoniani". Come regista ha tracciato spaccati straordiariamente autentici e aguzzi dell'America che conosciamo, o che non conosciamo, così in contrasto con i ruoli che spesso gli venivano assegnati come attore. Ne delinea un profilo munizioso il nostro critico cinematografico, accostandolo, in maniera tenue ed unica, anche al Bong Joon-ho, non fosse altro per lo sviscerare delle relazioni e i profili sociali.

di Massimo Mirra  

Clint Eastwood non ha bisogno dell'Academy Awards per essere insignito grandissimo ed immenso artista della decima musa, laddove il sudcoreano Bong Joon-ho, con l'immenso "Parasite", sembra addirittura riportare e indurre l'Academy ad una scelta ineluttabile...
La grande e impareggiabile arte cinematografica di Clint Eastwood - "THE MULE", ossia "Il Corriere", e "RICHARD JEWELL" risultano essere soltanto i suoi due ultimi ed ennesimi capolavori - prescinde da qualsivoglia colore di tipo politico. Se qualcuno, in spregio alla sinistra democratica statunitense, si fregiasse del titolo e del diritto di possesso della sua immensa e tetragona opera artistica, orientandola semmai nella direzione politica opposta, commetterebbe, a mio modo di vedere, un reato immane e ai limiti della buggeratura. Clint Eastwood avrà sicuramente un suo pensiero politico [forse di tipo destrorso, ma conta davvero poco rispetto alla sua venerabile arte], ma il suo concetto di arte è fondamentalmente legato alla sua intrinseca autonomia, ripiena di sue leggi interne e con una finalità propria. Tale autonomia dell'arte costituisce una idea di natura estetica, e non certamente di impronta poetica, interamente finalizzata ad una sorta di pura attività spirituale non ancorata, necessariamente, alla rivelazione in quanto tale o all'invocazione di tipo divino; laddove l'elemento di critica sociale, benché impercettibilmente presente nell'opera in sé, non ne costituisce, però, l'aspetto precipuo, se non ad un livello subliminale. Tale concetto era già noto a due mostri sacri, come Platone e Kant, che lo resero, in quel torno di tempo, autorevolmente sistematico. Questo è il motivo per il quale Clint Eastwood è il più grande cineasta vivente, di concerto con Martin Scorsese e Roman Polanski, ma anche il meno considerato da quel trito mondo tragicomico, divenuto per l'occasione ricetto di mediocri, dell'Academy Awards, con le sue fasulle nomination e lordate statuette, peraltro fortemente politicizzato - oserei dire da sempre - e che in me non ha giammai prodotto o suscitato il benché minimo, quantunque modesto o larvato, entusiasmo, se non una mia umbratile tendenza all'escapismo rispetto allo stesso. Essersi dimenticati, nei fastosi e variopinti cerimoniali, di autori, sparando nel mucchio ne cito soltanto i maggiori, come Chaplin, Welles, Rossellini, Antonioni - assurti o elevati, in ogni angolo anche di natura pulviscolare di questa terra, al rango degli dei - non ha costituito un grave reato, ma per contro un atto blasfemo nei confronti del quale si sarebbero inorriditi persino i carnefici del buon Cristo. Quest'anno premiando "PARASITE" (un'opera non in lingua inglese - il precedente fu "The Artist" del cineasta francese Michel Hazanavicius, ma era un film muto - ma capace di parlare le variegate lingue delle diseguaglianze sociali) dell'incommensurabile cineasta sudcoreano Bong Joon-ho, l'Academy Awards ha verosimilmente dimostrato che nulla poteva surclassare - nemmeno gli effimeri giochi di prestigio artatamente utilizzati dalla macchina hollywoodiana del buon guadagno - la forma artistica di un capolavoro così immenso e straordinario, come appunto "PARASITE", capace di decorrere e trasmigrare, attraverso un continuum di elementi intrisi di voci linguistiche diverse in riferimento alla contaminata e abile mescolanza dei variegati generi, dalla dark o black comedy allo splatter dal sapore granguignolesco e facendo, quindi, vivere o meglio convivere, all'unisono, sia il dramma sia l'eccitante ed illuminante farsa dal sapore universalistico. In più premiando "Parasite' del cineasta sudcoreano - autore peraltro di un altro film assai sottovalutato dalla critica: "Memorie di un assassino" - in primis come miglior film ed in secundis come migliore regia, l'Academy Awards, oserei dire in una maniera del tutto obnubilata ed inconsapevole, sembra aver reso onore e omaggio a Clint Eastwood - assurto ormai al rango degli onori ed elevato a nume aureolato collocato nell'immoto Olimpo - di concerto con il grande cinema, quello cioè inerente alle grandi vette dell'arte classica, ma anche quello più adeso al variopinto pubblico capace, sottilmente e sottesamente, di riflettere ed essere addirittura metacognitivo.

100 ANNI FA NASCEVA FEDERICO FELLINI

Non potevamo non serbare memoria del grande regista nel centenario della sua nascita, lo facciamo affidandone l'eccelso omaggio al nostro critico cinematografico.

di Massimo Mirra

Quanti di noi hanno potuto vedere, sognare, immaginare, scorgere - o addirittura percepire senza vedere alcunché - anche solo un minuscolo frammento inerente ad uno dei suoi tanti capolavori e non attribuirlo al più grande creatore di immagini che l'arte del Novecento ricordi o possa anche solo vantare come suo unico e irripetibile vessillifero, cioè Federico Fellini? Potrei rispondere quasi tutti, invece penso di poter dire con assoluta convinzione: TUTTI. Ognuno di noi sognando ha sognato qualcosa che Fellini ha saputo rendere universale e proprio ciò ha consentito di considerare immensa e facilmente riconoscibile la sua incommensurabile arte. Fellini è divenuto addirittura, senza che lo stesso ne abbia giammai compreso il significato o il benché minimo senso, un aggettivo con il termine "FELLINIANO". Laddove Pasolini fu un grande poeta della trasgressione; Antonioni un impareggiabile artista del rigore, capace addirittura di intimidire; Visconti un immenso autore, con il piglio aristocratico della forma; per contro Federico Fellini fu invece semplicemente il genio unico ed irripetibile di una forma artistica dal sapore visionario, nonché onirico. Un cineasta senza troppi adepti o eredi, proprio perché la sua arte non era né facilmente imitabile né semplicemente accessibile. I suoi film invece sì: alcuni di facile accesso, altri piuttosto intimisti, qualcuno persino panoramico. La sua immane grandezza sta, stava e starà proprio in tutto ciò: un autore che, per quanto poco imitabile dai tanti artisti della decima musa che pur hanno tentato di imitarlo, ha però consentito ad ogni singola persona di questo cosmo di potersi identificare con ogni singolo frammento di un suo qualsivoglia film capolavoro e questo perché Fellini è stato il più grande creatore di sogni che il mondo cinematografico ricordi. Con il film "Otto e mezzo" realizzò il più grande documento umano che un cineasta abbia potuto fare su di sé. In riferimento alla sua grandezza, Woody Allen ebbe a dire in illo tempore: "Federico Fellini, nella sua lunga e geniale carriera artistica, ha sbagliato solo due film, come "La città delle donne" e "Giulietta degli spiriti", ma avrei tanto voluto farli io". In conclusione posso solo ricordare ai più interessati, da convinto e orgoglioso rosselliniano quale da sempre sono, chi fu il suo unico, vero e conclamato Maestro: un tale Roberto Rossellini. Ciò costituisce, in aggiunta a cotanto senso artistico del genio felliniano, un giusto, anche se non unico, motivo per cui risulta assai difficile poter dubitare della grandezza artistica di Fed

A CENA CON IL DELITTO

Pubblichiamo volentieri questo testo critico di Massimo Mirra sull'opera di Adriana Minella "Cena con Delitto", approfittando del periodo natalizio ove spettacoli e rappresentazioni vengono seguite da un pubblico numeroso e sempre più disposto e attento. E' auspicio e soddisfazione per il GRISSAR che si ingrossi sempre più la schiera di chi ama il teatro, anche e soprattutto se giovani, e ringraziando per i suoi servigi il nostro critico, porgiamo a lui e a tutti coloro che ci seguono gli auguri più fervidi per un sereno anno nuovo, menzionando il grande Gigi Proietti con un suo adagio: "Benvenuti a teatro, dove tutto è finto ma niente è falso".

Dopo "A Befana ra' chiana ro' Sele" (un'opera, da me definita a ragion veduta, senza tempo, scritta e diretta dalla prof.ssa Adriana Minella e portata in scena dall'ottima compagnia teatrale de "Le Pleiadi"), l'encomiabile acribia di Adriana Minella sembra non doversi giammai arrestare, colpendo ancora una volta nel segno, del più elevato, nonché aureolato, suggello artistico, con l'incantevole crime story di impronta teatrale, quale appunto "A cena con il delitto“. L'autrice ha scritto, diretto e interpretato tale crime story con un atipico e primigenio piglio artistico rispetto al suo pregresso lavoro teatrale, ancorché dicotimicamente diverso, ma con esiti contenutistici assai lungimiranti e al di là del pur consistente ed abile plot, capace, lo stesso, di saper stupire con colpi di scena o tecniche narrative di impronta teatrale, e oserei dire persino della più che perfetta sua resa o riuscita artistica."Quod erat demonstrandum": avrebbe sentenziato il grande matematico greco Euclide a conclusione dei ragionamenti attraverso cui si riteneva appunto dimostrato l'assunto iniziale. Nel caso di "A cena con il delitto" e dinanzi alla perspicua visione - quasi cristallina nei tempi e nei modi del sua cifra di rappresentazione - di questo stupendo racconto di impianto teatrale a quadri, o a stazioni, ma senza pregiudicarne la benché minima autonomia del cosiddetto equilibrio d'insieme, ci sembra di assistere addirittura a qualcosa di assai diverso ed originale, le cui vestigia vogliono peraltro evocare un parellelo col presente nell'atto, però, del durante e del mentre in cui il tutto accade o si realizza. A tal uopo il come volevasi dimostrare lo si è voluto, oserei dire giustamente, utilizzare in contesti tutt'altro che matematici, proprio perché dinanzi all'accezione negativa di un fatto consumatosi con il delitto se ne è voluto prevedere, inopinatamente, un esito che sembra aver trovato la sua sublimazione artistica o verità poetica sulla base del concetto di ciò che l'arte semplicemente crea al di là del suo solo e unicamente rivelare. Nell'opera viene sapientemente meno addirittura quel classico piglio di tipo blasé che sembra caratterizzare, oggi, un numero considerevole di lavori teatrali adesi a tematiche del genere denominato crime story - peraltro genere ormai consolidatosi a pieno titolo nel corso del nostro tempo artistico. I prolegomeni di questa incantevole rappresentazione teatrale, grazie anche alla bravura dei magistrali interpreti provenienti quasi tutti dalla compagnia teatrale  de "Le Pleiadi" di Battipaglia, non sembrano né predire né tradire i toni dell'incerto esito di tipo classico e dal sapore spesso scontato, così come troppo spesso accade, ancorché larvatamente, con altri lavori di questa fatta. L'opera citata, in riferimento alla sua perfetta riuscita artistica, è articolata in quattro quadri - ossia scene - imperniati sulla scelta di una forma dialogica inconsueta, rispetto invece alla più che consueta affettazione linguistica caratterizzante l'arte teatrale del nostro tempo, e risulta essere molto lontana dalla maniera di esprimersi attraverso clichés tradizionali, sulla base, quindi, dei classici dialoghi pomposi ed evanescenti, del tipico e normato assetto teatrale, dai toni peraltro assai saporiferi. L'opera di Adriana Minella, nel suo ridefinito patto comunicativo con lo spettatore, invitato, quest'ultimo, non più a guardare ma a vedere con gli occhi della mente, non più a sentire ma ad ascoltare, a testimoniare e a condividere, sembra quasi determinare e tesaurizzare sistematicamente la sottile fruizione, appunto, di colui che ne subisce il fascino e cioè lo spettatore, il quale ne rimane inopinatamente basito per l'elevato candore che il testo rappresentato emana nel corso della sua più autentica consumazione di tipo artistico. La location utilizzata intensifica ancor più l'allignato senso autentico dell'insieme perché la messa in scena, i personaggi, gli interpreti e gli stessi spettatori sembrano vivere le loro "piacevoli" o "terribili" emozioni nel mentre il tutto si consuma, dilavandosi sul piano estetico, all'unisono e in correlazione alla  folgorante e illuminante  agnizione di tipo catartico. In conclusione la stessa opera a quadri diviene una sorta di rappresentazione vera, anzi autentica, delle emozioni umane e di ciò che significa essere, oggi come ieri, uomini a tutto tondo. Il pregevole lavoro dell'autrice è di grande attualità grazie sia alla sua primigenia semplicità, nella sua pur articolata complessità, sia alla sua incommensurabile bellezza, nonché grazia.

POLANSKI E SCORSESE, DUE GENI A CONRONTO

di Massimo Mirra

Due straordinari registi, due penetranti spaccati della storia del Novecento, assolutamente alieni da toni epici, analizzati dal nostro critico cinematografico.


Roman Polanski, genio della trasgressione destabilizzante, e Martin Scorsese, genio del cristianesimo tormentato dal pudico senso del peccato - autore, quest'ultimo, da sempre permeato da una tetragona dimensione spirituale, nonché tensione di impronta cattolica - con i loro due ultimi film capolavoro "L' ufficiale e la spia" (titolo originale: J'Accuse) e "The Irishman“, hanno saputo addirittura superare e travalicare, oserei dire grandemente, quella sublime allure che ha sempre contraddistinto l'opera omnia di entrambi. Il film di Polanski si schiude con un raffinato e stupendo movimento di macchina, tutto all'insegna di quel torno di tempo dal moto antiorario - sull'onda del celeberrimo J'Accuse pubblicato da Emile Zola sul quotidiano socialista "L' Aurore" e sotto l'aura di un apodittico antisemitismo del tempo storico in cui il film risulta essere ambientato (Francia, 1894) - incentrato sulla messa in stato d'accusa, per alto tradimento, del capitano Alfred Dreyfus (accusato, vilipeso, messo al pubblico ludibrio, condannato per presunto spionaggio e rinchiuso nella terribile fortezza dell'isola del diavolo) in relazione alla trasmissione di importanti e secretati documenti, inerenti alla sicurezza dello Stato francese, al sempiterno nemico tedesco. Il tutto si rivelerà poi un terribile, quanto voluto e oserei dire quasi dovuto, errore giudiziario, in nome di quella fatidica, suprema e vile ragion di stato. Il film, vicino a quella vena meno trasgressiva, ma altrettanto destabilizzante, e più classica della filmografia di Polanski (in tal senso "Tess" e "Il pianista" sono davvero esemplari sul piano della perfetta riuscita artistica in linea con il Polanski più tradizionale), nel ricostruire, a menadito, un importante episodio storico di fine secolo scorso e con fatti, quindi, riconducibili a quel tormentato ed oscuro periodo, peraltro colmo di ripercussioni e contraccolpi per l'intera Europa di quel tempo, sembra riportare in auge il maramaldeggiante dibattito, o addirittura scontro epocale, tra innocentisti e colpevolisti. Di Dreyfus, nel film, se ne scorge, probabilmente, solo larvatamente la presenza fisica, ma mai in assenza di quel perenne alone ruotante intorno al personaggio principale poc'anzi indicato e attraversato, immaginificamente, dall'intera durata filmica. Il protagonista del film è certamente il colonnello Georges Picquart, divenuto meritoriamente generale e poi ministro, con il suo elevato e irreprensibile senso delle istituzioni, ma il suo protagonismo, a tratti celato e sotto mentite spoglie, sembra fare da sponda o addirittura da spalla all'onnipresente capitano Dreyfus. Ciò viene rilevato e rivelato persino dal caratteristico metodo di illuminazione adottato dal polacco Edelman, basato su quella sua intirizzita fotografia alquanto tignosa della pur pulviscolare luce che sembra comunque attraversare il tutto e ancor più i dolenti volti impietriti dei due carismatici ed eccezionali interpreti: Jean Dujardin e Louis Garrel.

"The Irishman" di Scorsese, con la trimurti attoriale: Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci, ringiovaniti, per l'occasione, grazie agli effetti speciali di impronta avveniristica, affronta il giammai obnubilato tema scorsesiano inerente al consueto e consolidato rapporto, privo di quel bustrofedico andirivieni caratteristico in molti cineasti ma non in Scorsese, tra società e malavita organizzata.Tutto ciò avviene sulla base di uno spaccato generazionale tra la metà degli anni '50 agli anni cosiddetti kennediani sino ai nostri giorni. Nel farlo Scorsese racconta una America corrotta e legata a Jimmy Hoffa, carismatico e controverso sindacalista collocato tra i Kennedy e i variegati tentacoli della vituperatissima mafia, peraltro scomparso, inopinatamente, a Detroit nel 1975. Il film di Scorsese, sotto l'onta evidente di un irrisolto mistero dal sapore quasi eleusino e interamente incentrato sul caso Hoffa - caso peraltro privo di anastomosi in riferimento ad una verità ancora tutta da accertare - sembra essere contrassegnato da ossimorici tentativi di depistaggio e da efferati delitti rimasti del tutto impuniti. Laddove il film di Polanski tenta la perfetta, e giammai perfettibile, ricostruzione storica, a tratti addirittura di inchiesta e di natura processuale, di un incommensurabile errore giudiziario, a carico del capitano Dreyfus, basato, peraltro, su reati bagatellari e su un assurdo processo.

L'incidenza di Polanski e Scorsese sul cinema a noi contemporaneo, e non solo, diventa però ben più che un problema di ordine culturale, di genere - gangster movie e genere storico - e oserei dire anche di stile, proprio perché ad elevarsi, in entrambi i cineasti a mio modo di vedere molto rosselliniani in questi due capolavori, è soprattutto il raffinato metodo, da essi adottato, nella sua capacità di superare la finzione dello spettacolo e di trasformare l'arte di entrambi in consapevole informazione, dal piglio comeniano, intesa, ovviamente, in lato sensu, cosicché l'uno - Scorsese - storicizza un personaggio ancora appartenente alla cronaca (Jimmy Hoffa), l'altro - Polanski - cronachizza un personaggio restituito ormai completamente alla storia (Alfred Dreyfus).

IL LEONE D'ORO VA A JOKER

Certamente il film più controverso della stagione, osannato dal pubblico, tenuto a volte a distanza dalla critica, JOKER, di T. Philips, con J. Phoenix, tiene comunque banco. E' ancora il critico cinematografico Massimo Mirra a delinearne luci e ombre, mettendo sotto la lente d'ingrandimento l'attore protagonista.

di Massimo Mirra

Grande interpretazione e immenso interprete quel tal Joaquin Phoenix, ma definirlo uno dei migliori attore della storia del cinema mi sembra un po' eccessivo. Dovremmo dimenticarci dei Brando, dei De Niro, dei Monty Clift, dei Newman, dei Dean! tutti interpreti che hanno segnato una svolta di scuola e di metodo in merito all'arte della recitazione. Ora Phoenix, con il suo volto inquieto, è un grande interprete - attualmente penso il migliore in circolazione, così come da noi lo è Fabrizio Gifuni, benché con caratteristiche attoriali diametralmente diverse e opposte - ma senza la capacità e credo la possibilità di lasciare erede alcuno e questo potrebbe essere e costituire un suo limite. ll film JOKER si regge totalmente sulla sua performance interpetrativa, ma presenta dei lati oscuri, non sempre riusciti, a tratti eccessivi e visti e percepiti non sempre con molto entusiasmo, come, a mio modo di vedere, le continue e inveterate risate del protagonista di lapalissiana e chiara derivazione manieristica ai limiti di quel creato ma affettato artifizio recitativo e le forzate e mai trattenute contrazioni muscolari inerenti alla trionfante e raffinata erotopea della sua panottica corporeità. Certamente si tende a spaccare il capello, ma nel farlo si evidenziano alcuni eccessi di Phoenix che inficiano comunque la totale riuscita del film, ancorché retto ossimoricamente dall'unica presenza attoriale degna di nota, quella appunto di Phoenix, al di là di un De Niro, nella parte di un presentatore televisivo, giammai sopra le righe e che sembra trasmettere allo stesso Phoenix, designandolo quasi suo erede, la capacità di prendere a modello i problematici personaggi scorsesiani di Taxi Driver e Re per una notte. Il film tende a scrutare, attraverso il crollo psicologico del protagonista, una società fondata sul male, laddove attraverso la apparente visione di un cinecomics, il cattivo, divenuto tale per induzione, dà vita alla solenne edittazione di estromissione, per eliminazione fisica, dei cattivi, ritenuti geneticamente tali. Ma nel farlo rende la città meno libera, più cattiva e in preda l'ognora vituperatissima rivoluzione del male.

A CHE PUNTO E' IL FESTIVAL

Ringraziamo il critico cinematografico Massimo Mirra per questo splendido estratto sulla conclusione del 76° Festival di Venezia

Il Leone d'oro al film Joker di Todd Philips sinceramente, per quanto indaghi la profondità dell'animo umano, mi è parso un po' esagerato. Polanski lo avrebbe meritato più di tutti con l'incantevole film J'Accuse. Benissimo la “Coppa Volpi” a Luca Marinelli, nel segno del Martin Eden londoniano. So benissimo che il Leone d'Oro al film di Philips è stato trainato, soprattutto, dal carisma davvero impressionante di Joaquin Phoenix, ma il film in sé avrebbe meritato qualcosa in meno. Questi festival, spesso e volentieri, seguono le correnti mode del tempo e nel farlo perdono di vista il reale valore artistico dell'opera in quanto tale, che d'altra parte è ciò che davvero conta. Le opere permangono nel tempo, le mode correnti svaniscono nel nulla, rarefacendosi. Aggiungerei al tutto solo una piccola, ma importante e di grande significato storico e artistico, nota in merito al docu-film su Francesco Rosi, tra i più grandi cineasti d'ogni tempo, dal mio punto di vista tra i primi cinque giganti dell'arte cinematografica, insieme a Rossellini, Bergman, Fassbinder e Scorsese. Ovviamente, senza il consueto bustrofedico andirivieni di molti, è una mia legittima opinione a mo' di classifica, oserei dire da sempre, che lascia, come ogni cosa effimera o meno, il tempo che trova.                                                                                                                                                                                                          

                                                                                                                                                     Massimo Mirra

  IN RICORDO DI ANDREA CAMILLERI

di Massimo Mirra

Affidiamo ancora al nostro esperto di letteratura e critico cinematografico la memoria del grande scrittore. La pagina di Camilleri non ha solo coinvolto milioni di lettori, ma ha rappresentato "un pezzetto di eterno dove l'esistenza trova gioco", facendo della Sicilia, ancora una volta, il luogo della letteratura universale.

Cosa abbia rappresentato, per i più e senza che peraltro ne risultasse essere un carneade per i meno, l'immenso Camilleri, non è difficile, anche solo larvatamente, poterlo o saperlo anche solo immaginare, ma è certamente qualcosa che sembra attenere soprattutto a quel filone letterario siculo fortemente impregnato sia di quel profondo e indomabile senso civico sia di quella vernacolare forma scritturale, tipicamente autoctona, mista ad una ampio uso, però, della incommensurabile scrittura afferente alle grandi ed immense vette letterarie dal lignaggio antico, ma sempre eterno. Il tutto sembra toccare, amorevolmente, tre grandi autori, una sorta di trimurti culturale, come Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Si parte quindi da Girgenti, attraversando Racalmuto, per approdare a Porto Empedocle, laddove la cultura sicula, fondendosi con il primigenio sapore multiforme ellenico, ha saputo esprimere, a distanza di poco tempo, la sua più alta forma artistica, dando vita a tre sommi giganti, confluiti nell'alveo - ossia nel novero - della preziosa trimurti culturale, e all'uopo insigniti vessilliferi delle epoche, dagli stessi, toccate e rappresentate. Con la dipartita di Camilleri si chiude un ciclo e se ne apre, o dovrebbe aprire, un altro del cui inizio non se ne è dato di notare ancora la diffusione, ma se ne avverte, già lungamente, la sua pulsione belluina che sembra testimoniare, ripercorrere e riprendere i primi vagiti di una rediviva forma artistica nel suo farsi, o sapersi fare, ovviamente grandemente. Addio Maestro, i tuoi turiferari ti ricorderanno come l'ecista di una vereconda, originale e giammai soporifera forma scritturale.


L'AULA VUOTA

Ormai al termine dell’anno scolastico, un’appassionata recensione riporta, senza preamboli ed in maniera incalzante, il problema della scuola e della pedagogia nella scuola. Una proposta di lettura per serie riflessioni, rivolta ad addetti ai lavori e a cultori.

di Massimo Mirra

E’ l’ultima fatica letteraria, del più fine uomo di cultura, a mio modo di vedere, nonché raffinato storico, che oggi il Paese sembra possa vantare: Ernesto Galli Della Loggia. Il libro è tutto incentrato, con notevole ed intelligente criticità di pensiero da parte dell'eminente autore, su quella Pedagogia insulsa, fintamente democratica, da formale circolare ministeriale e a prevalente vocazione funzionalistica, con il precipuo ed esclusivo compito dei docenti di riempirne unicamente le aule, includendo, a tal uopo, più i docenti che gli stessi discenti (altro che scuola dell'inclusione). Ernesto Galli della Loggia analizza la triade SCUOLA - ISTRUZIONE - CULTURA e ne suggerisce anche il possibile rimedio con un redivivo ritorno al concetto inerente alla cosiddetta autorità quale unico e salvifico centro del rapporto educativo, formativo e didattico. Il libro sembra inoltre offrire, nel segno di quel fil rouge che tiene perfettamente unita la triade nella sua capacità e funzione di evitare un ulteriore e possibile depauperamento culturale, una interessante riflessione dedicata al pensiero di Giovanni Gentile in riferimento al suo modello didattico di tipo filosofico - disciplinare. Il Prof. Giuseppe Acone, di questo libro, ne avrebbe condiviso non solo le virgole, ma persino gli spazi vuoti incuneati tra una virgola e l'altra. L'esimio Prof. Acone con la sua scuola di indirizzo pedagogico, costituita peraltro da un team di epigoni di altissimo livello e di incommensurabile valore formativo, ha saputo anticipare grandemente quanto oggi, ma oserei dire da sempre, Ernesto Galli della Loggia va sostenendo nei maggiori consessi di ordine e profilo pedagogico. Il problema del nostro PAESE ITALIA, nel segno dei corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, è sempre lo stesso, direbbe il Prof. Giuseppe Acone: “CHI STUDIA NON COMANDA, MENTRE CHI COMANDA NON STUDIA".

                                                                                                            

ROSI E ZEFFIRELLI, DUE ANIME RACCHIUSE NELL'UNIVOCITA' DELLA GRANDE ARTE VISCONTIANA

di Massimo Mirra

In una Firenze a lutto, oggi si terranno i funerali del grande Zeffirelli. Ne affidiamo il ricordo ad un fine critico cinematografico, in un confronto con due altri padri del cinema mondiale.


Luchino Visconti è stato, con il suo estetismo visionario, il padre Adamo da cui è disceso buona parte del grandissimo cinema italiano identificabile nel e con il NEOREALISMO e non solo, ovviamente di concerto con l'immenso Roberto Rossellini, nella sua indomabile e perenne palingenesi artistica. I due epigoni di maggiore rilevanza artistica, nonché entrambi aiuto registi sul set di "La terra trema“ e “Senso“ - capisaldi della scuola neorealistica nella sua perfetta compenetrazione tra stile e intento contenutistico - in riferimento al loro grande nume tutelare come Luchino Visconti, sono stati Francesco Rosi e Franco Zeffirelli. Chi dei due abbia lasciato un maggior seguito o addirittura inciso di più da un punto di vista artistico non è poi così difficile o criptico poterlo dire o semplicemente sostenere, basterebbe, a coronamento di ciò, scorgerne attentamente le loro grandi o meno grandi opere artistiche. Ma possiamo sostenere con assoluta certezza, non priva di verecondia nei confronti dello stesso Zeffirelli nella sua qualità di grande costumista, abile scenografo e talentuoso cineasta - con almeno due capolavori consacrabili nel pantheon dei suoi film, come "La bisbetica domata" (con la strepitosa coppia Burton e Taylor) e "Romeo e Giulietta" (ottima rivisitazione Shakespeariana, grande successo di pubblico e la sua opera filmica più riuscita) - soprattutto in merito alla direzione degli attori; che se Rosi è stato grandissimo dal punto vista cinematografico, persino nella sua perfetta e assoluta innovazione di tipo linguistico in merito agli stessi contenuti racchiusi nella raffinata immagine; Zeffirelli lo è stato semplicemente, fino ad un secondo prima della sua dipartita, come coreografo di idee, scenografo luminoso e grande esteta di quella immagine elegante e accurata giammai distinta o separata dalla chiarezza e la fruibilità del contenuto, ancorché non sempre ripieno di quella precipua significazione di estrema o massima portata. Le due anime, con quella loro inevitabile, dovuta e giusta differenza dal sapore artistico, hanno, sostanzialmente, saputo mutuare il loro fare artistico da quella grandissima anima chiamata Visconti - alias Conte Rosso per le sue scelte politiche - che nel solo averle, oserei dire, entrambe create ha saputo portare a compimento la sua più grande opera artistica e cioè quella imperniata sulla trimurti culturale a supporto però, esclusivamente, del suo genio: unico, irripetibile e senza il lascito di altri eredi rispetto a quanto già dato e saggiamente creato.

IN RICORDO DI GIUSEPPE ACONE

di Massimo Mirra*

Ad un anno dalla morte del grande accademico, in esclusiva per il GRISSAR, ne tratteggia il ricordo Massimo Mirra, amico e collega, con toni commossi e sublimi.


Quanto tempo è ormai trascorso senza più poterne anche solo percepire, o addirittura immaginare, gli angoli reconditi delle tue formate e sapienti parole. Parole ripiene di una cultura vastissima e di una visione panottica della vita; di quella stessa vita alla quale le tue scolpite e atemporali parole sono sempre state indirizzate; di quella superba e acrimoniosa vita che ci ha voluto ingiustamente deprivare, ma solo nella più effimera e saporifera contingenza, di un uomo, come te, di grandissima levatura culturale, di incommensurabile qualità morale e con una eccezionale nobiltà di ispirazione; di quella vita che tacendo la tua assenza ha reso noi tutti più poveri, ancorché ricchi del tuo illuminato sapere, sempre imperniato su quel preciso equilibrio interdisciplinare.

Caro PROFESSORE, anzi PROFESSORE EMERITO di quel sapere incapace di intravederne, anche solo lontanamente, il perentorio termine, vorrei tanto poterti incontrare, un giorno, nei CAMPI ELISI, ma non ora perché vorrò ancora godere del tuo amorevole ricordo, odororare il sapore della scaturigine di quelle tue raffinate parole e apprezzare la tua immane OPERA quale autentica crestomazia culturale, stilistica e memorialistica del tuo elevato e, ormai, scolpito pensiero sotto l'egida del primato di quella eternità concessa solo a pochi...rispetto ai tanti.

*Esperto del cinema di Roberto Rossellini e critico cinematografico

PROFILO DI UNO STUDIOSO CAMPANO, MASSIMO MIRRA

Nel ringraziarlo per la preziosa collaborazione, pubblichiamo un essenziale profilo dello studioso campano, in attesa di ulteriori sviluppi dei suoi importanti studi.

Massimo Mirra è un esperto del cinema di Roberto Rossellini con due saggi scritti sul grande cineasta, con la prefazione del figlio Renzo Rossellini: Il trascendente e lo spirituale nel cinema di Roberto Rossellini e Il cinema di Roberto Rossellini nella prospettiva didattica e psicopedagogica. Ha partecipato a convegni vari in tutta Italia e sempre sul cinema rosselliniano. E' stato critico cinematografico nella trasmissione televisiva COSE DA PAZZI, ideata e realizzata da Alfonso Paoletta e Barbara Varrone. Ha presentato diversi libri, tra i quali un bellissimo lavoro del Prof. Maurizio Cianci, ed ha pubblicato recensioni critiche su quotidiani locali e nazionali. Ha anche collaborato saltuariamente con la professoressa Chiara D'Alessio, docente di pedagogia generale presso l'Università di Salerno. Ha approfondito e studiato, con pubblicazioni che usciranno nei mesi successivi, il rapporto tra cinema e neuroscienze. E', tra l'altro, in uscita un nuovo saggio sul cinema di Roberto Rossellini dal titolo Il cinema di Roberto Rossellini tra aspetto corale, storia e proposta didattica.

SUL CRISTO RISORTO

di Gerardo Pecci* 


L'ottavo giorno, a porta chiuse, Gesù entrò e disse: "Pace a voi!". E' nostra fervida speranza che l'auspicio di pace annunciato dal Cristo risorto risuoni in questo "panorama scheletrico del mondo", e pervada i pensieri, le gesta, le parole di ogni uomo, al di là di ogni credo, di ogni interesse, di ogni colore. Con gioia, pubblichiamo un brano di un insigne studioso del Meridione d'Italia, che ha voluto privilegiare il GRISSAR concedendo l'esclusiva di questo suo studio sul pittore seicentesco Mattia Preti.

La Resurrezione di Cristo è vittoria sulla morte e certezza di eternità. A Siviglia, nel Museo de Bellas Artes, è conservato un dipinto a olio su tela raffigurante Cristo risorto appare agli Apostoli mentre cenano. Si tratta di un quadro eseguito dal celebre pittore italiano Mattia Preti (Taverna, 1613 – La Valletta, 1699) meglio noto come il Cavalier Calabrese. Proviene dalla collezione Dean Lopez Cepero, nella quale compariva come opera del Guercino. Nel 1931fu donato al museo sivigliano da Don Olegario Peralbo, senza però citarne l’autore e per giunta con un titolo sbagliato, confondendo questa “apparizione di Cristo” con la più celebre iconografia della “Cena in Emmaus”. Il riconoscimento vero del soggetto iconografico, facente riferimento al Vangelo di san Luca (24, 35-49), è dovuto a una replica di questo dipinto, conservato nella Collezione Carime di Cosenza, come ha dimostrato lo studioso Giorgio Leone nel 1997. Già nel 1965 lo studioso Alfonso Pérez Sanchez propose di datare questo dipinto sivigliano intorno al 1671, al momento in cui la tavolozza del maestro calabrese si faceva più scura, il famoso “tenebrismo” pretiano. Diciamo che la datazione oscilla tra il 1670 e il 1675 circa. Il taglio obliquo del gruppo degli Apostoli, e la figura di Cristo, solenne e maestosa, reggente il vessillo della resurrezione, che chiude lo spazio sulla destra del dipinto, dinamizza lo spazio ed enfatizza la teatralità dei gesti e della sorpresa che si può leggere sul volto dei presenti. Lo stesso gesto di Cristo per rassicurare gli Apostoli, le mani, le bocche semiaperte, gli occhi sorpresi e puntati su Cristo redivivo fanno di quest’opera una sorta di evento teatralizzato, un fatto che finisce per coinvolgere anche noi spettatori di fronte alla straordinarietà di ciò che vediamo, all’epifania del Cristo risorto. Sono i segni del linguaggio emozionale, propri della cultura e della retorica pittorica barocca, del Seicento ormai più che maturo. Un’altra copia di questa opera, oltre quella nella Collezione Carime, è sempre conservata a Cosenza, nel Museo Diocesano, ed è attribuita a un seguace di Mattia Preti. Qualcuno ha creduto di poterla attribuire a Luca Giordano che, com’è noto, fu anche un bravo copista (e falsario…) della maniera pittorica altrui, ma dotato di una memoria prodigiosa, tanto da riprodurre con la penna un disegno fedele del quadro sivigliano di Preti prima che potesse giungere nella collezione di qualche personaggio importante spagnolo. L’episodio della riproduzione del dipinto del Preti dimostra che non aveva del tutto torto Bernardo De Dominici nel considerare Luca Giordano come un artista in grado di assorbire temi, iconografie, maniere stilistiche di altri artisti e poi di saperle riprodurre addirittura a distanza di decenni. Ma, tornando al quadro originale sivigliano, c’è da dire che la Spagna è piena di opere d’arte dei nostri pittori dell’Italia meridionale, che all’epoca era Viceregno spagnolo. E i rapporti tra Spagna e Italia furono più stretti e vivi che mai sul piano culturale, artistico in particolare. Tanto per fare un esempio, se pensiamo che il rinnovamento secentesco delle cripte delle cattedrali di San Matteo a Salerno e di Sant’Andrea ad Amalfi furono finanziate quasi totalmente dalla Corona spagnola ci rendiamo perfettamente conto di quanto stretti e vivi furono i rapporti tra la Spagna e l’Italia meridionale nel XVII secolo.

*Docente di Storia dell'Arte, critico e storico dell'arte

Un'incisiva ed originalissima riflessione sull'ancestrale incontro tra arte e uomo

di Giulia Terralavoro

Un noto film francese del 2011, intitolato “Quasi Amici”, annota tra le sue scene iconiche e più ricordate una in museo d'arte moderna, dove i due protagonisti – due personaggi che più opposti non si può: un ragazzo di origini senegalesi dal passato turbolento, ed un ricco tetraplegico – si soffermano a guardare una tela bianca con un'unica, grande macchia rossa. Uno schizzo di sangue, un omaggio a Pollock. È difficile da definire. Così come hanno difficoltà anche i protagonisti a capirlo. Sta però al tetraplegico, Philippe, spiegare al suo amico Driss che cosa sia quella macchia di rosso su tela bianca che non riescono a decifrare.
Philippe:“Secondo lei, perché la gente si interessa all'arte?”
Driss:“Non lo so, è un business.”
Philippe:“No. Perché è la sola traccia del nostro passaggio sulla Terra.”
L'ultima frase lascia decisamente riflettere e non solo di fronte a questo spezzone di film, a questi fotogrammi luminosi: ma soprattutto di fronte ad un museo, trovandosi davanti alle tele di fronte a cui Caravaggio ha amato, Leonardo ha sperimentato le sue eccentriche tecniche o Dalì ha sognato, cercando di trasporre il suo inconscio su quelle tele che oggi ci affascinano, ci spaventano: ci fanno dimenticare che Dalì è morto sulle note di Wagner il 23 gennaio 1989.
E allora ci si chiede che cosa rimanga dell'artista, a parte biografie vasariane e di altre terze parti che tentano, inutilmente, di ricostruire i sapori di una vita con carta e penna. Ma ci sono cose che non si possono descrivere, per questo esiste l'arte.
Ci sono molti modi per definirla, se lasciamo per un attimo da parte l'arte come traccia di sé.
È uno sfogo. La rappresentazione di un'emozione, che sia la più piccola o la più grande esplosione dell'interiorità umana.
È una memoria. Cercare di rendere eterne le sensazioni di un attimo fugace, che sia incubo, sogno, realtà o frammento di essa.
È il potere di Dio. Creare dal nulla una realtà mai esistita e che, al di fuori della nostra mente, non esisterà: quindi, cercare di rendere ciò che non è mai esistito.
È il potere dell'uomo. Sfruttare la mente e la mano dell'uomo appieno, nel modo più completo e assoluto, per glorificare sé stesso, il mondo, l'eterno.
Eppure, tutto ciò si ricollega alla traccia di sé. L'essere umano ha sempre paura della non-esistenza. Spesso la si associa alla paura della morte, ma non è la stessa cosa: la non-esistenza è ben più grave e spaventosa di un passaggio di stato, seppur buio e incerto.
Ed è la paura che affrontiamo tutti.
Ma come ricordava Shakespeare nei suoi sonetti, ci sono due modi per esistere dopo la morte e quindi sconfiggerla: i figli e l'arte; che, per questo, divenne sinonimo ben presto di potere.
Quanti uomini si fecero ritrarre dai grandi come Raffaello e Tiziano per essere ricordati dai posteri? Per noi Napoleone resterà il ritratto di Jacques Louis David, per noi Giulio II resterà sempre negli Uffizi.
Loro sono diventati immortali. Eppure, i loro, grandiosi regni no.
E poi, cosa c'è bisogno di dire di un artista? Basta presentare una sua opera che il suo vissuto, passato, presente, futuro, siano intuibili da pennellate rapide e sicure o dai bozzetti ordinati di un nuovo palazzo. Perché la storia si scrive in linea temporale, ma la vita no.