but is freud outdated?
Il complesso di Elettra è un fenomeno psicologico che spinge le donne a innamorarsi di uomini simili al padre: ecco cosa c'è da sapere. (Fonte: William Blake Richmond | Alfred Church) Quante volte abbiamo rimproverato un’amica, che si confidava con noi, perché cercava nel partner un’ideale irraggiungibile? Sicuramente tante. Questa situazione potrebbe essere stata indice del complesso di Elettra, non di una semplice fissazione della nostra amica. Il complesso di Elettra è qualcosa che ci colpisce tutte in maniera sana quando siamo bambine, ma che per alcune donne permane in età adulta.
Si tratta di un fenomeno psicologico che la psicanalisi, come accade molte volte, mutua dalla mitologia. Sostanzialmente indica il sentimento di attaccamento che la bambina nutre per il padre e la competizione che si instaura con la madre quando ha tra i 3 e i 6 anni. Il complesso di Elettra viene superato nella maggior parte dei casi, ma si può presentare da adulte se invece non lo si è archiviato. Nella storia: secondo la mitologia, Elettra era la figlia di Agamennone e Clitemnestra. La famiglia, nonostante i greci furono vittoriosi, fu in realtà funestata dalla guerra di Troia. Agamennone, infatti, fece sacrificare Ifigenìa (la loro figlia primogenita) per ingraziarsi gli dei prima della guerra, lasciando Clitemnestra ad attenderlo, mentre la donna covava sentimenti di vendetta. Al ritorno dalla guerra, Agamennone fu ucciso da Egisto, amante di Clitemnestra, suscitando così il rancore della figlia Elettra, che fece uccidere la madre e il suo amante dal fratello Oreste.
Il complesso di Elettra viene spesso definito come l’omologo femminile del complesso di Edipo. Come Elettra uccide Clitemnestra secondo il mito, Edipo uccide senza riconoscerlo il padre Laio e sposa la madre Giocasta. Nel complesso di Edipo vi è un legame forte e morboso tra un uomo e la propria madre. Entrambi i complessi indicano la nascita della sessualità negli esseri umani: il primo riferimento per le femminucce è il padre, mentre per i maschietti è la madre.
Complesso di Elettra e psicologia Il complesso di Elettra consiste di 5 fasi: orale, anale, fallica, latente e genitale. Ogni fase corrisponde allo sviluppo delle zone erogene che poi si conosceranno una volta grandi. La teoria, iniziata da Sigmund Freud a partire dal complesso di Edipo, fu completata da Gustav Jung. In pratica: intorno ai 3 anni, le bimbe scoprono l’esistenza del sesso tra i loro genitori e se ne sentono escluse. Accade anche ai maschietti, ma in maniera differente, tanto che in questi si genera un complesso di castrazione. Le bimbe scoprono che non hanno il pene e decidono di “conquistarlo” attraverso la conquista del padre. Si tratta comunque di una fase passeggera, ma quando si è adulte potrebbe essere ancora presente: ci sono dei sintomi ben precisi che consentono di individuarlo. Sintomi del complesso di Elettra Solitamente, le donne che soffrono di un complesso di Elettra irrisolto appaiono incostanti e perfezioniste nelle loro relazioni sentimentali. Questo perché cercano nel proprio uomo una meta tanto perfetta quanto lo è l’idealizzazione del loro padre, il loro punto di riferimento. Per questa ragione il complesso di Elettra viene detto anche la «sindrome del principe azzurro»: si è sempre alla ricerca dell’uomo perfetto, che, naturalmente, non esiste. Le donne che soffrono del complesso di Elettra, quindi, cambiano spesso partner perché sono costantemente alla ricerca dell’amore ideale o perché non si sentono amate a sufficienza. Inoltre, potrebbero avvertire un bisogno costante di protezione, esattamente come da bambine anelavano la mano del papà.
La terra e l'universo - Il perché della Creazione - I giorni della Creazione. La Terra è uno dei nove pianeti del sistema solare. La Terra, che sembra tanto grande, se confrontata al Sole è in realtà piccolissima. Se rimpicciolissimo la terra fino alle dimensioni di una testa di spillo, il Sole in proporzione sarebbe grande come un pallone e sarebbe distante circa settanta metri. Il Sole con i suoi pianeti fa parte a sua volta di un immenso gruppo di stelle disposte a forma di disco. Questo ammasso di stelle forma la galassia. La galassia comprende circa cento miliardi di stelle. Poiché sulla Terra vi sono circa otto miliardi di uomini, si può dire che ogni uomo dispone di circa venti stelle. Le stelle della galassia sembrano vicinissime l'una all'altra. In realtà sono lontanissime fra loro. La stella più vicina al sole è distante circa quattro anni luce. La luce impiega cioè circa quattro anni per coprire tale distanza. La luce si muove a velocità altissima: in un secondo compie circa sette volte il giro della terra. Per percorrere la distanza fra il Sole e la Terra la luce impiega circa otto minuti. Ma la galassia con i suoi cento miliardi di stelle non è tutto l'universo. Nello spazio vi sono tante altre galassie. Forse cento miliardi. Forse anche di più. Ma a questo punto neppure la più fervida immaginazione può pensare queste grandezze e queste distanze. L'Universo è sempre stato così? Gli scienziati oggi dicono che l'Universo si sta ingrandendo sempre di più come un palloncino di gomma che si gonfia. Circa venti miliardi di anni fa - dicono gli scienziati - questo palloncino era piccolissimo. Poi all'improvviso è avvenuto un grande scoppio. Da quello scoppio si sono formate in seguito le galassie, le stelle, il Sole, i pianeti ed anche la nostra Terra. Secondo i calcoli degli scienziati, la terra avrebbe un'età di circa quattro miliardi di anni. Sulla Terra poi la vita è iniziata molto più tardi. L'uomo infine è apparso sulla terra da pochi milioni di anni. Questo dice la scienza. Essa intende descrivere i fatti come sono avvenuti, ma non spiega perché i fatti sono avvenuti così. La scienza non spiega il senso della creazione.
Il perché della Creazione. La Bibbia non si preoccupa di spiegare come hanno avuto origine l'Universo, la Terra e l'uomo. La Bibbia ci fa capire piuttosto il perché della Creazione. La descrizione biblica della Creazione non è una descrizione scientifica. Del resto l'autore del racconto della creazione non poteva conoscere le leggi della fisica come gli scienziati di oggi. Il racconto della creazione è stato scritto circa tremila anni fa ed allora non esistevano né telescopi, né sonde spaziali. Però il racconto biblico della creazione spiega perché esiste il mondo e perché esiste l'uomo. La Bibbia spiega il senso della Creazione. Il mondo e l'uomo esistono perché sono stati voluti da Dio. Dio che è fuori del tempo perché è l'Eterno, ossia esiste da sempre, ha voluto donare all'uomo l'esistenza. Dio è eternamente felice, ed è contento di donare. Ha voluto far partecipare gli uomini alla sua felicità. Così Dio ha creato la terra, questo pianeta meraviglioso con i suoi animali, le piante, i fiori, le nuvole, le montagne, le acque... In questo giardino Dio ha posto la sua creatura prediletta, l'uomo. L'uomo è l'unico essere sulla terra capace di pensare, di volere, di amare. Come afferma la Bibbia, Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. Pensare, volere, amare sono attività specifiche di Dio. Dio ha creato l'uomo per farlo partecipe della sua stessa vita. La vita di Dio è vita di libertà, di amore, di felicità. La Creazione del mondo e la creazione dell'uomo sono descritte nel primo libro della Bibbia intitolato Genesi, che significa «origine». I fatti della Creazione non sono esposti dalla Bibbia in forma scientifica. La Bibbia vuole solo farci capire che ogni cosa ha avuto origine per volontà di Dio e che Dio ha fatto buona ogni cosa. L'autore del racconto della Creazione immagina che Dio abbia compiuto la sua opera in sei giorni. Questo è solo un modo di dire, è un linguaggio simbolico. Dio è presentato come un operaio che lavora una settimana e poi si riposa. Lo schema dei sei giorni di lavoro e del settimo giorno di riposo è stato adottato dall'autore per insegnare agli uomini che anch'essi devono comportarsi come Dio. Gli uomini devono lavorare, ma devono anche riposarsi. Soprattutto devono dedicare un giorno della settimana al loro Creatore. Devono offrire a Dio una parte del tempo che Dio ha loro donato. Nel giorno di riposo gli uomini devono occuparsi di Dio, devono rivolgere a lui il loro pensiero e la loro preghiera. Nell'Antico Testamento (la prima parte della Bibbia) il giorno di riposo e di preghiera era il sabato. Nel Nuovo Testamento (la seconda parte della Bibbia) è la domenica. Il racconto della Creazione vuole ricordarci che un giorno su sette appartiene totalmente al Signore. Non bisogna quindi pensare che la Creazione sia avvenuta davvero in sei giorni di ventiquattro ore l'uno e neppure in sei ere lunghe milioni di anni. I momenti della Creazione sono stati riassunti in sei giorni soltanto per inculcare negli uomini il rispetto del lavoro e del riposo. La Bibbia immagina che all'inizio del tempo e quindi anche dell'Universo regnassero il caos, il disordine. Queste espressioni equivalgono al nostro «nulla». Da questa situazione di partenza Dio ha tratto l'Universo, mettendo ordine, dividendo, abbellendo. Dio ordina e adorna il mondo con la sua parola. Anche questo modo di esprimersi della Bibbia è simbolico. In realtà Dio non ha bisogno di parlare per operare qualcosa. Basta il suo pensiero, basta un atto della sua volontà. La volontà di Dio, quando si manifesta, produce subito e sempre dei fatti.
autostima, egocentrismo e aggressività: compromessi o contrasti?
Rm12, 9-18
"La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarmi a vicenda. Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell'ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti.
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E' possibile allontanarsi da un'impostazione della propria vita ripiegata sull'io, contratta sull'io, invasa dal bisogno d'essere amati e ammirati? L'individuo deve continuamente provare a se stesso che esiste, e utilizza gli altri per questo? La nostra società, che si ritiene evoluta, continua ad essere segnata da violenza, sfruttamento, ingiustizie, dalla corsa al potere e a possedere, e i giovani ne sono influenzati negativamente, per cui anche fra loro, anche fra voi, spesso prevale il conflitto e la violenza. Paolo di Tarso ci dà una proposta di vita, nel rispetto dei percorsi di ciascuno, delle sue tendenze, della sua formazione culturale, sociale e religiosa. Egli era un maestro di tolleranza, di rispetto delle diverse culture, dei vari atteggiamenti religiosi, oltre che essere apostolo di Gesù. Aveva viaggiato molto ed era nato in una regione ove convivevano diverse formazioni, civiltà e conoscenze, ed egli Ie conosceva bene e le apprezzava tutte. Sembra quasi un personaggi modello per i nostri tempi, come ce ne vorrebbero oggi, il suo messaggio è forse un esempio da considerare da ciascuno di noi, non fosse altro per un personale atteggiamento, per un cammino-impegno nei nostri tempi ma anche di serenità personale, di pacato atteggiamento verso gli altri e verso se stessi, nonché per un'autentica autostima, alla scoperta delle nostre qualità più nascoste e di quelle di chi incontriamo. Di conseguenza posso liberarmi dall'angoscia lancinante di provare agli altri, ma soprattutto a me stesso, di essere forte. Non ha più bisogno di usare la mia vita per provare disperatamente che sono degno di essere amato e apprezzato.
Molto è stato scritto sull’aggressività, ma assai poco sulla non-aggressività, sulla gentilezza. E il poco che è stato detto sull’argomento, tranne alcuni studi di psicologi e di antropologi che hanno lavorato sul campo, era raramente basato su risultati di ricerche. Negli ultimi anni un certo numero di autori hanno riesumato l’ipotesi che gli esseri umani siano universalmente aggressivi, anzi che essi lo siano per istinto. La loro ipotesi ha suscitato una buona dose di interesse e di approvazione sia tra i lettori sia tra alcuni scienziati. Ma ha anche suscitato molte critiche da parte di studiosi del comportamento animale e umano. Nel volume Il buon selvaggio. Educare alla non-aggressività, uscito da poco per Eleuthèra, si dimostra, nei diversi casi studiati, che il carattere non-aggressivo è il prodotto culturale di un’educazione affettuosa e non punitiva tesa al controllo dell’ira, della paura, dell’ostilità. E’ quindi un’educazione intenzionalmente indirizzata al comportamento cooperativo e non-aggressivo che produce individui e società coerentemente non aggressive e cooperative.
Gli «innato-aggressivisti» – come io definisco coloro che ritengono che l’aggressività sia universale e innata, ad esempio Konrad Lorenz, Niko Tinbergen, Robert Ardrey, Desmond Morris, Anthony Storr e altri – danno per scontato che tutte le società umane si conformino all’opinione che essi ne hanno, vale a dire che tutte le società umane siano aggressive. Si dà invece il caso che ciò, semplicemente, sia falso.
Molte società umane non possono essere classificate come aggressive. E vi sono molti individui nelle società aggressive che non sono aggressivi e che anzi sono contrari a qualunque forma di comportamento aggressivo. Molte società che sembrano aggressive sono, in realtà, composte da individui che per lo più non sono abitualmente aggressivi. La maggior parte della gente nelle società «civili» viene coinvolta nelle guerre non perché si senta aggressiva nei confronti di quello che viene socialmente definito come il «nemico», ma perché i suoi leader – che a loro volta raramente sono motivati da sentimenti aggressivi – ritengono necessario fare la guerra. E una tale convinzione non ha assolutamente nulla a che vedere con sentimenti universali o con istinti, ma per lo più con necessità politiche.
Margaret Mead fu, molti anni fa, il primo antropologo a indagare sulle origini dell’aggressività in società preletterate. Nel suo studio Sesso e temperamento (il Saggiatore) evidenziò l’esistenza in tre società primitive di una forte correlazione tra pratiche educative dell’infanzia e successivo sviluppo della personalità. Il bambino che era fatto oggetto di molta attenzione, quello i cui bisogni venivano prontamente soddisfatti, come tra gli Arapesh della Nuova Guinea, diventava un adulto gentile, cooperativo, non-aggressivo. D’altro canto, il bambino cui veniva data un’attenzione superficiale e intermittente, come tra i Murdugomor – sempre della Nuova Guinea – diventava un adulto egoista, non-cooperativo, aggressivo.
Successive ricerche tra popoli sia preletterati sia civilizzati hanno sostanzialmente confermato questa correlazione.
Sembrerebbe che, seppure le potenzialità aggressive esistano in tutti gli esseri umani sin dalla nascita, tali potenzialità restino tali a meno che non vengano organizzate dall’esperienza in comportamenti aggressivi.
fonte: https://larivistaculturale.com/2022/10/15/antropologia-culturale-sociologia-aggressivita-gentilezza/
Un ricordo dell'infanzia di
S. Agostino
4. 9. La tua legge, Signore, condanna chiaramente il furto, e così la legge scritta nei cuori degli uomini 27, che nemmeno la loro malvagità può cancellare. Quale ladro tollera di essere derubato da un ladro? Neppure se ricco, e l'altro costretto alla miseria. Ciò nonostante io volli commettere un furto e lo commisi senza esservi spinto da indigenza alcuna, se non forse dalla penuria e disgusto della giustizia e dalla sovrabbondanza dell'iniquità. Mi appropriai infatti di cose che già possedevo in maggior misura e molto miglior qualità; né mi spingeva il desiderio di godere ciò che col furto mi sarei procurato, bensì quello del furto e del peccato in se stessi. Nelle vicinanze della nostra vigna sorgeva una pianta di pere carica di frutti d'aspetto e sapore per nulla allettanti. In piena notte, dopo aver protratto i nostri giochi sulle piazze, come usavamo fare pestiferamente, ce ne andammo, giovinetti depravatissimi quali eravamo, a scuotere la pianta, di cui poi asportammo i frutti. Venimmo via con un carico ingente e non già per mangiarne noi stessi, ma per gettarli addirittura ai porci. Se alcuno ne gustammo, fu soltanto per il gusto dell'ingiusto. Così è fatto il mio cuore, o Dio, così è fatto il mio cuore, di cui hai avuto misericordia mentre era nel fondo dell'abisso. Ora, ecco, il mio cuore ti confesserà cosa andava cercando laggiù, tanto da essere malvagio senza motivo, senza che esistesse alcuna ragione della mia malvagità. Era laida e l'amai, amai la morte, amai il mio annientamento. Non l'oggetto per cui mi annientavo, ma il mio annientamento in se stesso io amai, anima turpe, che si scardinava dal tuo sostegno per sterminarsi 28 non già nella ricerca disonesta di qualcosa, ma della sola disonestà. Ma io, sciagurato, cosa amai in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello, se eri un furto; anzi, sei qualcosa, per cui possa rivolgerti la parola ? Belli erano i frutti che rubammo, perché opera delle tue mani, o Bellezza massima fra tutte, creatore di tutto, Dio 33 buono, Dio sommo bene e bene mio vero. Belli, dunque, erano quei frutti, ma non quelli bramò la mia anima miserabile, poiché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto. E infatti appena colti li gettai senza aver assaporato che la mia cattiveria, così inebriante a praticarla. Se pure un briciolo di quei frutti entrò nella mia bocca, a insaporirlo era il misfatto. E ora, Signore Dio mio, mi domando: cosa mi attrasse in quel furto? Non vi trovo davvero bellezza alcuna, non dico la bellezza insita nella giustizia e nella saggezza, o nell'intelletto umano, nella memoria, nella sensibilità, nella vita vegetativa, o la bellezza e la grazia propria nel loro ordine agli astri e alla terra e al mare, popolati di creature che si succedono nella nascita e nella morte, e nemmeno quella difettosa e irreale con cui ci seducono i vizi.
bene, male e sessualità
La sessualità, oggi, è vissuta tra mille proposte.
C'è chi la condanna e la nasconde, come cosa cattiva, di cui non parlare.
C'è chi la banalizza e ne fa uno strumento di piacere o la usa per far pubblicità ai prodotti da vendere.
C'è chi ritiene che la completa e libera soddisfazione degli istinti sessuali sia motivo di emancipazione, di progresso: segno di civiltà.
Il cristiano pensa che la sessualità sia un importante dono di Dio, da vivere in una logica di amore autentico, senza egoismo né ripiegamenti narcisistici su se stessi.
Essa è secondo il progetto divino quando: è vissuta con serenità ed impegno all'interno di un progetto di vita, nel quale si trova armonizzata con tutti gli altri valori che danno senso all'esistenza, è lo strumento attraverso il quale si esprime un amore autentico tra persone che si rispettano e si donano reciprocamente si esprime attraverso i comportamenti sociali che proteggono e promuovono i valori. L'amore non è più spontaneo e naturale quando viene esibito senza leggi né pudore; senza rispetto per le conseguenze che possono essere subite da altri. Giovanni Paolo II afferma: «la sessualità, mediante la quale l'uomo e la donna si donano l'uno all'altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l'intimo nucleo della persona umana come tale.
Essa si realizza in modo veramente umano, solo se è parte integrale dell'amore con cui l'uomo e la donna si impegnano totalmente l'uno verso l'altra fino alla morte. La donazione fisica totale sarebbe menzogna se non fosse segno e frutto della donazione personale totale, nella quale tutta la persona, anche nella sua dimensione temporale, è presente: se la persona si riservasse qualcosa o la possibilità di decidere altrimenti per il futuro, già per questo essa non si donerebbe totalmente. Questa totalità, richiesta dall'amore coniugale, corrisponde anche alle esigenze di una fecondità responsabile, la quale, volta come è a generare un essere umano, supera per sua natura l'ordine puramente biologico, ed investe un insieme di valori personali, per la cui armoniosa crescita è necessario il perdurante e concorde contributo di entrambi i genitori. Il «luogo» unico, che rende possibile questa donazione secondo l'intera sua verità, è il matrimonio, ossia il patto di amore coniugale o scelta cosciente e libera, con la quale l'uomo e la donna accolgono l'intima comunità di vita e d'amore, voluta da Dio stesso, che solo in questa luce manifesta il suo vero significato». (GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio, 11)
Fonte: Giovani e Cultura Religiosa, A. Bonora, R. Brunelli, R. Rezzaghi, Editrice La Scuola, Brescia
Da L’Arte di Amare, di E. Fromm
La gente non pensa che l’amore non conti. Anzi, ne ha bisogno; corre a vedere serie interminabili di film d’amore, felice o infelice, ascolta canzoni d’amore; eppure nessuno crede che ci sia qualcosa da imparare, in materia d’amore. Questo atteggiamento si basa su parecchie premesse: la maggior parte della gente ritiene che amore significhi “essere amati”, anziché amare; di conseguenza, per loro il problema è come farsi amare, come rendersi amabili, e per raggiungere questo scopo seguono parecchie strade. Una, preferita soprattutto dagli uomini, consiste nell’avere successo, nell’essere ricchi e potenti quanto lo possa permettere il livello della loro posizione sociale. Un’altra, seguita particolarmente dalle donne, è di rendersi attraenti, coltivando la bellezza, il modo di vestire, ecc. Una terza via, seguita da uomini e donne, è di acquisire modi affabili, di tenere conversazioni interessanti, di essere utili, modesti, inoffensivi. Molti dei modi per rendersi amabili sono gli stessi impiegati per raggiungere il successo, per “conquistare gli amici” e la gente importante. Come dato di fatto, quel che la gente intende per “essere amabili”, è essenzialmente un insieme di qualità. Una seconda premessa per sostenere la teoria che nulla v’è da imparare in materia d’amore, è la supposizione che il problema dell’amore sia il problema di un oggetto e non il problema di una facoltà. La gente ritiene che amare sia semplice, ma che trovare il vero soggetto da amare, o dal quale essere amati, sia difficile. Il terzo errore che porta alla convinzione che non vi sia nulla da imparare in materia d’amore, è la confusione tra l’esperienza iniziale d’innamorarsi e lo stato permanente di essere innamorati. Se due persone che erano estranee lasciano improvvisamente cadere la parete che le divideva, e si sentono vicine, unite, questo attimo di unione è una delle emozioni più eccitanti della vita. E’ ancora più meravigliosa e miracolosa per chi è vissuto solo, isolato, senza affetti. Il miracolo di questa intimità improvvisa è spesso facilitato se coincide, o se inizia, con l’attrazione sessuale. Tuttavia, questo tipo d’amore è per la sua stessa natura un amore non duraturo. Via via che due soggetti diventano bene affiatati, la loro intimità perde sempre più il suo carattere miracoloso, finché il loro antagonismo, i loro screzi, la reciproca sopportazione uccidono ciò che resta dell’eccitamento iniziale. Eppure, all’inizio, essi non sanno questo; scambiano l’intensità dell’infatuazione, il folle amore che li lega, per la prova dell’intensità del loro sentimento, mentre potrebbe solo provare l’intensità della loro solitudine. Soltanto un mezzo sembra esista per evitare il fallimento del proprio amore: esaminare le ragioni e studiare il significato della parola “amore”. Il primo passo è di convincersi che l’amore è un’arte così come la vita è un’arte: se vogliamo sapere come amare dobbiamo procedere allo stesso modo come se volessimo imparare qualsiasi altra arte, come la musica, la pittura, oppure la medicina o l’ingegneria.
Fonte: Giovani e Cultura Religiosa, A. Bonora, R. Brunelli, R. Rezzaghi, Editrice La Scuola, Brescia